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Maristella, adesso, si fa le superiori

Maristella, adesso, si fa le superiori

E’ facile riconoscere l’azienda che destinata ad un sicuro fallimento; già in difficoltà finanziarie, oppressa da un elevato indebitamento, effettua tagli nei costi di ricerca e sviluppo per trovare i fondi per tirare avanti un altro po’.

Per sopravvivere un altro giorno, anziché cambiare radicalmente la propria struttura, cercare nuovi mercati e lanciare nuovi prodotti, si priva delle strutture fondamentali che servirebbero proprio a fare questo.

Quanto assomiglia ad un’azienda che sta per finire sott’acqua, il nostro paese.

La riforma della scuola superiore tracciata del ministro Gelmini – o chi per lei – di cui si conosce oggi la portata è un caso quasi da manuale di come un paese non si debba comportare di fronte alle avversità; per dei risparmi immediati, che daranno forse il fiato per tirare avanti qualche giorno o mese in più, si rinuncia a qualunque tentativo di aumentare la preparazione del personale che dovrà lottare, nel prossimo futuro, per mantenere l’azienda Italia al posto dove, nonostante tutto, è ancora oggi: tra le prime del mondo.

La riforma è fatta, in buona sostanza, di tagli negli orari e nulla più; gli studenti di domani saranno un poco meno preparati di quelli di oggi: esattamente il contrario di quello di cui avremmo bisogno.

Leggo, in questi giorni, molte polemiche sul ruolo degli impiegati della pubblica amministrazione nella nostra economia.

Sostengono, per certi versi a ragione, di essere pure loro tartassati e di contribuire anche loro con le proprie tasse al funzionamento del paese; questo è certamente vero, ma anche assolutamente falso, e lo stesso può dirsi per tutti coloro che lavorano ad esclusivo beneficio del mercato interno.

Ricordo un film con Totò nel quale l’arrivo di una banconota da diecimila lire saldava tutti i debiti di un quartiere; la diecimila passava vorticosamente di mano in mano, da Totò a Peppino, poi da questi al pizzicagnolo e così via, risalendo tutta la catena delle relazioni umane- ed economiche- del protagonista.

Tutti ricevevano e davano la mitica diecimila, ma ciò poteva accadere solo grazie a chi, per primo, aveva messo quella banconota in circolo nell’economia, altrimenti chiusa, del gruppo di amici.

Il nostro Paese che per sopravvivere deve importare, soprattutto energia, sta in piedi grazie al lavoro delle aziende esportatrici; tutti contribuiamo, ma loro sono vitali.

L’obiettivo principale della nostra politica economica non può essere che quello di mettere queste aziende nelle condizioni di competere al meglio sui mercati mondiali.

I nostri prodotti non si vendono, orami da decenni, perché sono solo più economici di quelli della concorrenza; battere sul prezzo la competizione dei paesi emergenti, producendo articoli di analoga qualità, non è neppure pensabile.

Nei settori tradizionali della nostra produzione – quelli su cui dovremmo continuare a puntare proprio perché lì, nonostante tutto, abbiamo ancora dei vantaggi – era il mestiere, tramandato a volte da secoli, che fino a poco fa ci garantiva l’esclusività; oggigiorno questo è ancora importante – la salvaguardia della capacità di fare, unico vero patrimonio italiano, assieme alle bellezze naturali e artistiche, dovrebbe essere un altro degli obiettivi primari della nostra politica – ma da solo non basta.

Si fa un gran parlare d’inglese ed informatica e li si associa con una fauna impiegatizia dedita ad un terziario più o meno avanzato; oggigiorno inglese, informatica, ma anche chimica e fisica, servono semplicemente per continuare a produrre mobili, scarpe o tessuti di alta qualità.

La visione dell’operaio in tuta blu, intento a ripetere meccanicamente una mansione semplice, è destinata, se il nostro paese vuole continuare a restare nel gruppo di testa delle economie mondiali, ad essere sempre più rara; è esattamente nei settori in cui una forza lavoro poco preparata trova applicazione che non possiamo neppure pensare di sopravvivere: se il compito del lavoratore è solo stingere un bullone, ci saranno sempre – speriamo, altrimenti saremmo noi ad essere diventai secondo o terzo mondo – paesi dove si potrà trovare chi è disposto a farlo per un salario, rispetto a quelli nostrani, irrisorio.

Noi riusciamo ancora a restare a galla, e talvolta a prosperare, in quelle attività in cui si richiede all’operaio la conoscenza, a volte maturata in decenni, di operazioni complesse, che richiedono attenzione e sensibilità particolari; per le nostre aziende esportatrici diventa sempre più difficile trovare personale all’altezza delle proprie esigenze, non solo a livello di quadri e dirigenti, ma proprio nei reparti di produzione che di quelle realtà sono il cuore.

Un diploma di scuola superiore – di una buona scuola superiore – dovrebbe essere il minimo dell’istruzione della nostra forza lavoro di oggi, tanto più di quella di domani.


Tutto possiamo tagliare, per sopravvivere alla congiuntura, ma non l’istruzione: è nelle scuole che il nostro paese, come qualunque altro, prepara il proprio futuro.

Ricordo la mia prima visita in Irlanda, a metà anni ottanta: il paese era poverissimo – il più povero d’Europa con il Portogallo - ma investiva tutto quel che poteva nella costruzione di una rete capillare di università, soprattutto a carattere tecnico; un decennio dopo l’Irlanda, che grazie anche alla propria forza lavoro ben preparata aveva iniziato ad attrarre investimenti, era diventato un paese europeo mediamente ricco.

Vent’anni dopo aveva superato l’Inghilterra come PIL pro capite ed era uno dei paesi più ricchi del mondo. La classe dirigente irlandese ha commesso poi qualche eccesso, ubriacata dall’improvvisa ricchezza, e ora il paese ne paga il prezzo, ma resta comunque tra i più ricchi d’Europa; l’istruzione e poco altro, nello spazio di una generazione, hanno spazzato via una miseria secolare che sembrava destinata a durare per sempre.

La ricetta che sta seguendo il governo italiano non è certo quella irlandese; è quella fallimentare d’ispirazione reaganiana.

Si sottraggono fondi alla scuola pubblica, se ne peggiora la qualità, convinti che l’istruzione serva davvero solo ad una ristretta élite, mentre il resto della popolazione deve solo sapere quel tanto che basta a consumare e svolgere le mansioni, sempre più elementari, previste da un’economia che ha rinunciato, di fatto, a produrre e soprattutto a produrre qualità.

E’ la visione folle di una società divisa tra rivoltatori di denaro e di hamburger quella che stiamo inseguendo, dimenticando che il nostro paese non ha certo né le risorse economiche né il retroterra strategico – chiamatelo impero se preferite – degli Stati Uniti d’ America.

Se non produciamo e non esportiamo non ci saranno né denaro né hamburger; se non innoviamo costantemente moriamo: ogni nostra risorsa residua dovrebbe essere investita nella scuola – oltre che nelle fatiscenti infrastrutture di base- e nella ricerca.

Gli sprechi che esistono nel mondo della scuola vanno affrontati, certo, ma senza intaccare minimamente la qualità dell’insegnamento: anziché tagliare gli orari e i corsi si facciano lavorare di più gli insegnati o meglio li si faccia lavorare tutti.

Se una cosa funziona ancora nel nostro paese, sono i licei; non sono un esperto in problematiche educative ma ho a che fare, per il mio lavoro e con la mia biografia, con persone di buona cultura di mezzo mondo; pochi, o nessuno, tra loro possono vantare la stessa preparazione di base degli italiani che sono passati attraverso un buon liceo pubblico. Una vera riforma scolastica dovrebbe mirare ad estenderla a tutti, ma proprio tutti, i ragazzi: non esiste alcuna ragione al mondo, oggi, perché l’obbligo scolastico non venga esteso fino ai 18 anni.

Quegli anni di studi in più, che nella realtà italiana dove le famiglie mantengono i figli trentenni e sottoccupati avrebbero un costo sociale assai modesto, andrebbero ad incrementare il valore del capitale umano con cui dovremo ricostruire tanta parte dell’economia italiana.

Quando lanciai quest’idea, un anno fa, a cena con un gruppo di buoni borghesi lombardi, fui inizialmente accolto da degli sguardi carichi di beneducato scetticismo.

Ho chiesto, al più conservatore tra i presenti, titolare di un azienda tessile, che cosa sarebbe accaduto se d’improvviso si fosse ritrovato ad avere tutti gli operai con un diploma e tutti i capireparto con una laurea.

Dopo una battuta iniziale, “conoscendoli mi chiederebbero subito un aumento”, si è lasciato coinvolgere dall’esperimento mentale.

Ha iniziato a parlarmi di lavorazioni ad alto valore aggiunto cui ha dovuto rinunciare perché non aveva abbastanza personale all’altezza, di altre che avrebbe voluto provare ad avviare, ma che non osava intraprendere più per mancanza di tecnici che di macchinari.

“Lascerei perdere gli stracci", fu la sua conclusione, "se avessi tutta gente così e farei tessuti per andare sulla Luna”.

In quelle parole, assolutamente vere, c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno come Paese per affrontare il futuro: dobbiamo, nei vari settori, spingere la qualità dei nostri prodotti fino alle stelle.

Per farlo serve tanto mestiere – e quello fortunatamente ancora lo abbiamo – e tantissima istruzione.

Per capirlo non ci vuole molto; basta parlare con chi lavora davvero.

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