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#Londonriots: i social media e gli scontri a Londra

L’Inghilterra brucia da giorni: a partire dagli scontri di sabato notte a Tottenham per la morte di Mark Duggan, le violenze e i saccheggi si sono diffusi a macchia d’olio nel resto di Londra e in altre città. Oltre alle riflessioni sulle cause (Una rivolta sociale scatenata da una uccisione ingiustificata della polizia? Semplice barbarie fine a se stessa? Il segnale che la società multietnica è giunta al termine?), si fa un gran parlare del ruolo dei social media nella diffusione e nel coordinamento degli assalti.

Sul banco degli imputati è finito principalmente Twitter. Per il Sun, per esempio, il servizio di microblogging sarebbe stato utilizzato per «orchestrare la violenza a Tottenham e incitare gli altri alla rivolta».

Sulla stessa lunghezza d’onda il Daily Mail, che parla di «timori che la violenza sia stata aizzata da Twitter». A dimostrarlo, sarebbe il fatto che un’immagine di un’auto della polizia in fiamme sia stata re-twittata più di 100 volte. Oltre a commenti «incendiari» e «richieste di rinforzi» sui luoghi degli scontri.

Anche in Italia la teoria ha fatto adepti. Il Giornale, per esempio, scrive: «Determinante per l’estensione delle violenze appare l’attività su Twitter». E per La Stampa «la ribellione si è estesa da Nord a Sud grazie al tam tam via Twitter e Blackberry».

In realtà le cose sembrano stare diversamente. Come ha scritto inizialmente il blog The Urban Mashup, sono i stati i messaggi scambiati sul Blackberry Messenger (Bbm), e non su Twitter, ad «aver alimentato la rabbia dei giovani che si sono riversati sulle strade». Il motivo è molto semplice: il sistema di messaggistica istantanea dello smartphone è il più utilizzato dai giovani britannici (e uno studio Ofcom lo dimostra, affermando che è usato dal 37% dei ragazzi); è gratuito; e, soprattutto, è considerato privato, e dunque al riparo dall’occhio indiscreto della polizia. «Bbm è stato anche il canale attraverso il quale si è diffuso il passaparola sull’inizio della rivolta», ha scritto The Urban Mashup, sostenendo inoltre che i messaggi reperibili su Twitter semmai confermino che Bbm continua a essere lo strumento utilizzato per coordinare le violenze. Come questi:

Il tutto, ha precisato in seguito il blog, senza voler sostenere che Bbm sia stata la causa dello scoppio dei disordini: «Le persone e non i social network causano le violenze». Per questo i diversi richiami a sospendere il servizio, che si sono rincorsi in queste ore, non dovrebbero essere ascoltati.

Il post originale è stato in seguito ripreso su TechCrunch ed è giunto fino al Guardian, il cui giornalista Paul Lewis ha usato proprio Twitter per cercare di entrare nella rete privata di messaggi via Bbm, riuscendo a carpirne alcuni particolarmente significativi. Questo, per esempio:

Everyone from all sides of London meet up at the heart of London (central) OXFORD CIRCUS!!, Bare SHOPS are gonna get smashed up so come get some (free stuff!!!) fuck the feds we will send them back with OUR riot! >:O Dead the ends and colour war for now so if you see a brother… SALUT! if you see a fed… SHOOT!

Blackberry Uk è intervenuta con un tweet in cui si dice disponibile «in ogni modo» ad aiutare le autorità. Che, nel frattempo, hanno affermato che chiunque posti commenti particolarmente adatti a incitare le violenze su Bbm, Twitter e Facebook rischia la galera. Posizioni che hanno scatenato la dura reazione di uno dei tanti account di Anonymous: «Questo significa che Blackberry è disposta a fornire i vostri messaggi privati alla polizia. Hello, Stato orwelliano».

Il che, secondo New Scientist, è tutt’altro che irrealizzabile: il network Bbm «non protegge» i violenti, dato che «il suo apparire come chiuso e privato è un’illusione». Servendosi delle reti 3G, «il traffico internet e i messaggi inviati sono interamente tracciabili».

A ogni modo, Facebook e Twitter hanno giocato (e stanno giocando) un ruolo nella vicenda. Ma ben diverso. Sul social network di Mark Zuckerberg, per esempio, è nata la prima pagina commemorativa per Mark Duggan (alcuni fanno notare il parallelo con quella di Khaled Said che ha dato il via alla rivolta in Egitto, pur precisando le differenze nelle motivazioni). E gli interventi dei gestori sono tutt’altro che indirizzati a fomentare la violenza:

Diverse poi le pagine che si dicono contrarie ai saccheggi e alla follia vista per le strade inglesi: tra le altre, Reclaim London (1.500 fan), United Against the London Riots (8.500), Post riot clean-up (7.900), Croydon Clean-up Crew (4.000).

Su Twitter, l’account @RiotCleanup, per coordinare gli sforzi di quanti vogliono contribuire a dare una ripulita alle zone colpite dalle violenze, ha raccolto oltre 61.000 iscritti in poche ore, e l’hashtag #riotcleanup è tra gli argomenti più discussi sul social network. Sempre su Twitter, oltre all’ormai consueta narrazione in tempo reale fatta di un misto di giornalisti, testimoni e volontari dell’informazione (l’account @Londonriot ha già 6.000 follower), sono state diffuse le foto e i video simbolo di quanto stava accadendo. Come questa:

Per inciso, per Repubblica.it il fatto che sia stata postata da un utente Twitter e ripresa dall’agenzia Reuters è sufficiente a parlare di un «giallo».

Ancora, su Twitter sono state diffuse mappe aggiornate in tempo reale degli scontri (qui, per esempio) e un sito, Londonrioters, in cui chiunque può visionare le foto degli scontri e aiutare la polizia a identificarne i protagonisti, anche postando le proprie immagini:

Da ultimo, anche il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha chiesto ai suoi lettori di raccontare le proprie esperienze via Twitter:

Quanto ai commenti sul ruolo dei social media rispetto a quanto avvenuto, trovo che il migliore sia anche il più semplice. E proviene dal blog TechEurope del Wall Street Journal, a firma Ben Rooney:

I social media non possono prendersi i meriti della ‘primavera araba’ almeno quanto non possono essere ritenuti responsabili per ‘l’estate di Londra’. Possono aver giocato un ruolo, ma semplicemente perché sono il nostro strumento di comunicazione attuale. Le tecnologie della comunicazione sono moralmente neutre.

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