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Lo scrittore secondo José Saramago

E’ morto il più grande scrittore, secondo me, di questo nostri anni, Josè Saramago. Di lui si è detto di tutto, dalle lodi più assolute alla denigrazione (veramente fuori luogo mi si permetta di dirlo l’Osservatore romano), di lui qualcuno ha rimarcato soprattutto le ultime vicende editoriali italiane. La sua avversione per Berlusconi e il rifiuto di pubblicare il libro in cui trascriveva le note del suo blog (di cui alcune appunto contro Berlusconi) da parte della Einaudi, gruppo Mondadori e dunque di proprietà del premier.

In realtà questa è la parte di Saramago, il polemista, che, nel momento della sua morte, mi interessa di meno perché è la parte più transitoria: la cronaca, questi personaggi politici passeranno, invece i suoi grandi affreschi narrativi, le sue storie visionarie e taglienti, piene di saggezza e di ironia, piene dell’assurdo del vivere, quelle resteranno e quelle sono la sua eredità.

Lo scrittore secondo José Saramago

Talvolta nel suoi romanzi e nei suoi saggi, come spesso fanno gli scrittori, Saramago ha parlato del ruolo del narratore, queste note ora vi vorrei proporre perché narrare è certo un’arte altissima, ma è anche la prima forma di espressione umana, tutti tutti i giorni della nostra vita raccontiamo.

 

Dunque cosa distingue, se si distingue, lo scrittore? Saramago l’ha detto.

La testimonianza più alta del ruolo del narratore si trova verso la fine del romanzo più famoso (forse il suo capolavoro) “Cecità”.

In un mondo in cui tutti diventano progressivamente ciechi senza nessun motivo, dopo vicende di una portata emotiva incredibile e ricche di suspence, di ironia, di dolore, umanità e orrore, la protagonista incontra uno scrittore. Questi, pur essendo divenuto, come tutti, cieco, scrive, perché non può fare altro. Scrive quanto è accaduto a lui e alla sua famiglia, ma non appena incontra queste nuove persone subito vuole sapere delle loro vicissitudini per poterne scrivere. Ecco parte del suo dialogo con la protagonista:

“Vorrei che mi parlaste di come avete vissuto in quarantena, Perché, Sono uno scrittore, Bisognerebbe esserci stati, Uno scrittore è una persona come un’altra, non può sapere tutto né vivere tutto, deve domandare e immaginare”.

Perché lo scrittore vuole sapere altre storie? Semplice perché è uno scrittore e ovviamente uno scrittore non può né sapere né vivere tutto, ma domanda (raccontare come testimonianza, dare voce a chi non ce l’ha) e immagina (raccontare come possibilità di sognare, di creare altri mondi, altre storie, altre visioni del mondo e della realtà). C’è tutto in questa risposta...

Se non sono scrittori, spesso però i protagonisti dei romanzi di Saramago hanno a che fare con le parole: possono essere correttori di bozze (Storia dell’assedio di Lisbona) o impiegati all’anagrafe (Tutti i nomi), oppure mediocri pittori che si dedicano alla calligrafia (Manuale di pittura calligrafica). La parola ha un grande potere, essenziale e creatore: “il senso di ogni parola assomiglia a una stella quando si mette a proiettare le maree vive nello spazio, venti cosmici, perturbazioni magnetiche, afflizioni” (Tutti i nomi).

Della parola poetica e romanzesca Saramago parla più diffusamente in un articolo “Una lettera con inchiostro da lontano” che fa parte della raccolta di scritti “Di questo mondo e degli altri”.

Lo scrittore è in un deserto, lui e le sue mani che si staccano dal corpo e scrivono. Chi scrive talvolta ha l’impressione che tutto sia stato raccontato quando è stata pronunciata la prima parola (se prima parola c’è stata).

La speranza è che tutte siano prime parole e dunque ogni volta tutto sia ancora da raccontare.

“Seduto in mezzo al campo spopolato, chi scrive mantiene il suo curvo profilo perché non vi si perdano le tracce di un’umanità che ogni istante rende più imprecisa. E va tracciando segni sulla carta, desideroso di farla diventare aperta e concava come il cielo notturno perché non si perda l’incoerente discorso, custodito ora in piccole luci che impiegheranno più tempo a morire”.

Lo scrittore isolato nel suo cubo, lui e le sue mani, non piace però a Saramago, egli incita lo scrittore (anche se stesso?) a piegare il suo tavolo: “ne faccia il suo fardello e il suo zaino (…) e affronti la traversata del deserto (...) dove sono le persone e le domande che esse fanno. Allora il messaggio diverrà traducibile sarà tovaglia da pane e con esso ci ripareremo dal freddo. Allora si torneranno a raccontare le storie che oggi diamo impossibili. E tutto comincerà (...) a essere spiegato e compreso. Come la prima parola”.

Tutti narriamo, forse tutti pronunciamo la prima parola, ma uno scrittore è colui che sa dire che il messaggio “sarà tovaglia da pane e con esso ci ripareremo dal freddo”. Proprio questo ha fatto Saramago è stato pane e riparo per chi l’ha incontrato e continuerà a farlo attraverso i suoi libri.

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