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Libia: di male in peggio e interessi italiani a rischio

A parte la proposta di quote rosa nelle prossime elezioni, le notizie che arrivano dalla Libia testimoniano una situazione sempre più critica. Dapprima la manifestazione a Bengasi davanti alla sede del CNT, con tanto di lancio di granate e annesso tentativo di sfondare i cancelli del palazzo di governo. Poi la caduta di Bani Walid, tornata in mano ai gheddafiani, nonostante il Ministro degli interni avesse negato il loro ritorno alla carica.

Secondo Mustafa Fetouri, scrittore libico e accademico originario di Bani Walid, alla base della rivolta in città c'era la paura che la tribù Warfalla fosse privata delle proprie posizioni all'interno del nuovo ordine. Inoltre, è una località abbastanza remota e isolata dai centri principali, dunque intrinsecamente poco controllabile, ed è forse l'unica in tutta la Libia i cui abitanti appartengono quasi tutti alla stessa tribù.

Si combatte anche altrove, come ad Assabia, tornata anch'essa a sostenere il regime decaduto. Emblema di una realtà sul campo che descrive come la gente, e forse gli stessi vertici, stanno perdendo la fiducia nella divisione equa del potere.

Lo stesso Jalil non sa più che messaggi lanciare: prima ha riconosciuto che la Libia potrebbe cadere in un pozzo senza fondo, poi si è rimangiato tutto dichiarando che il suo non è un Paese diviso.


Oltre alle milizie, a spaccare il Paese c'è un altro conflitto, più strisciante, che sta prendendo vita tra fondamentalisti, decisi a chiedere una legislazione basata sulla shar'ia, e islamisti moderati. I libici stanno scoprendo che la libertà, duramente conquistata in battaglia, è ora in forse.
 

La Libia sta scivolando nella stessa spirale di violenza che ha infiammato l'Iraq nel 2003. "I confronti con l'Iraq sono azzardati", ha dichiarato Geoff Porter, di Risk Consulting Nord Africa. Certo, ci sono delle analogie: "Lotta tra fazioni, un governo la cui legittimità viene apertamente messa in dubbio e nessuna prospettiva immediata di ritorno di una società pacifica", ma anche sostanziali differenze, come la mancanza di una forza occupante e la possibilità di riprendere la produzione petrolifera, seppure azzoppata, fin da subito.

Ma è forse una valutazione troppo ottimistica. Finché le milizie saranno armate, il controllo del governo, l'industria del petrolio e tutto l'ordine stabilito saranno a rischio.
Inoltre gli arsenali di Gheddafi continuano a far paura: le armi trafugate dai depositi stanno inondando il mercato nero in Africa. Nascoste nel terreno restano ancora circa 11 tonnellate di bombe inesplose. E i continui scontri con le tribù Tuareg, alleate di Gheddafi, potrebbero ostacolare le attività estrattive dell'uranio in Niger, dove la francese Areva detiene importanti concessioni – potrebbe consumarsi qui la vendetta delle tribù nei confronti dell'Occidente per l'eliminazione del qa'id

Nel caos che si sta delineandogli interessi italiani sono messi a serio rischio – ammesso che sussistano ancora. Il retroscena della visita di Monti a Tripoli, secondo Lettera43, è quello di una missione fallita. La dichiarazione di Tripoli, sottoscritta dai due governi, è ben altra cosa rispetto agli impegni del vecchio Trattato di Amicizia del 2008, che in cambio di 5 miliardi di dollari in 20 anni di rimborsi coloniali garantiva all’Italia la supremazia nell’assegnazione di appalti e giacimenti, oltre al contenimento dell’immigrazione clandestina.

Nonostante le rassicurazioni delle scorse settimane, la posizione di Eni in Libia potrebbe essere ridimensionata in favore di altri concorrenti (Total?). C'è poi la questione delle partecipazioni finanziarie in Italia, che il governo provvisorio libico avrebbe intenzione di ridurre; per il momento, è certo che la Banca centrale di Tripoli non sottoscriverà l'aumento di capitale di Unicredit.

Il risentimento verso gli italiani è comprensibile: a Tripoli l'immagine del baciamano ce l'hanno ancora ben presente. E poi, come conclude il suddetto articolo: “È una questione di orgoglio, ma anche di necessità. Le divisioni che insanguinano la Libia sono infatti il riflesso della situazione fluida del Paese e della debolezza del governo di Al Queeb: l’esecutivo gode di poco credito tra gli stessi libici. Fare il muso duro contro gli stranieri che non si sono schierati subito a favore della rivoluzione è un modo per costruire consenso interno. E l’Italia ha esitato decisamente troppo a sposare la causa”.

D'altra parte l'Italia non è l'America e non può impedire alla Libia di fare affari con chi vuole (cioè con la Francia). Come invece può permettersi Washington, che ha esortato Tripoli a tenere fuori l'Egitto dal business della ricostruzione per non soffiare ricchi appalti alle imprese madre in USA.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di pint74 (---.---.---.64) 27 gennaio 2012 18:15
    pint74

    Non bastavano l’Afghanistan e l’Iraq a farci capire quante ridicole fossero le scuse adotte per queste guerre,cioe’ il portare democrazie...Ora anche la Libia è devastata e solo per cosa? Per rubare le materie prime,il petrolio... Quanto è buono l’occidente... Dai tempi di Hitler sembra cambiata solo una cosa.Il proclama per cui si fà una guerra.Una volta era lo spazio vitale ,ora è la cosiddetta democrazia,cosa ,a quanto pare, falsa ,visto che poi si sciacalla la nazione spartendosi le ricchezze naturali e lasciando la popolazione nella miseria più lurida e nel caos totale...

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