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 Home page > Tribuna Libera > Lettera di una reclusa: l’attesa infernale per i domiciliari

Lettera di una reclusa: l’attesa infernale per i domiciliari

Vi pubblico un'altra lettera che mi è stata inviata. E' la stessa mano della lettera che pubblicai qualche tempo fa: quella fu la descrizione dell'inferno che si vive all'interno delle nostre carceri. A molti di voi potrebbero non toccare questo racconto, ma a tanti altri sì. Specialmente per quelli che hanno avuto il buonsenso di approfondire e conoscere questa realtà che dovrebbe coinvolgere tutti noi. Nessuno di noi dovrebbe avere la sicurezza di sentirsi escluso. Facile il detto: "Se uno sbaglia, deve pagare!". Ed è proprio quella parola, "sbaglia", che dovrebbe farci riflettere. Nessuno di noi è immune dallo sbaglio, e il nostro Stato ce la fa pagare cara. Troppo spesso anche con la vita. E se lo Stato stesso sbaglia, se l'uomo Magistrato accusa un innocente e quindi sbaglia, è sempre chi subisce a pagare amaramente tutto.

L'attesa per ottenere gli arresti domiciliari.

Sono nata in settembre, ma da due anni a questa parte considero idealmente come data da festeggiare il sei luglio: giorno in cui sono rinata; il giorno in cui sono uscita dal carcere. Nel corso dei dieci mesi di “carcerazione preventiva”, cinque dei quali di totale segregazione, il mio legale ha presentato una lunga serie di richieste di sostituzione della misura cautelare che ogni volta, esclusa l’ultima, sono state rigorosamente rigettate. Ricordo che al primo rifiuto, a distanza di pochi giorni dal mio arresto, mi ero sentita veramente persa, tanto da desiderare fortemente di compiere un gesto definitivo, che mi evitasse, come un taglio netto, di affrontare la dura prova che mi stava aspettando e sopportare il peso delle mura di dolore di cui non mi sarei potuta liberare per un lungo, interminabile tempo. Quella volta ebbi veramente il timore di non superare la notte, di non rivedere la luce del giorno dopo, e non so che cosa mi abbia veramente dato la forza di mantenere la lucidità della mia mente, forse la preghiera, forse l’amore per la mia famiglia, il desiderio e la paura di non poterli riabbracciare, il dispiacere di dover rinunciare a vedere mio nipotino crescere. L’istinto di sopravvivenza ha prevalso e queste mie parole sono solo una piccola testimonianza di uno dei momenti più bui della vita, il fondo assoluto nel quale non mi sono voluta arrendere, dal quale, faticosamente ho ricominciato la mia salita. Dopo quel primo episodio di totale smarrimento, imparai a gestire le mie emozioni, soprattutto quelle legate alle cattive notizie. Il carcere è una cassa di risonanza delle emozioni che se non sapute controllare possono travolgerti, ma questo nessuno te lo insegna. C’è solo, ma non sempre, uno psicologo, che durante i colloqui di rito ascolta le risposte alle domande che pone, annotando le sue conclusioni sulla cartella sanitaria del detenuto.

L’unica relazione un po’ più dettagliata, redatta a distanza di tre mesi dal mio ingresso e ritrovata nella documentazione sanitaria consegnatami al momento del rilascio, riporta l’esito di uno dei cd “colloqui di sostegno” di cui ti trascrivo un estratto: “…. La detenuta, conosciuta dalla scrivente sin dal suo ingresso, appare affrontare la carcerazione con sofferenza ma con grande dignità, risentendo molto delle limitazioni imposte dal giudice procedente (la donna non è autorizzata a telefonare ai propri familiari, a ricevere visite e non può avere alcuna corrispondenza epistolare). Pur presentandosi disponibile ai colloqui, riesce a livello verbale a contenere e trattenere le emozioni più profonde e più intense, che però emergono evidentemente e si colgono ad un’attenta osservazione della gestualità e della mimica facciale. I disturbi dell’appetito, del sonno e della veglia, dell’attenzione, che ha presentato in passato durante il protratto periodo di isolamento e di deprivazione sensoriale, attualmente si sono attenuati anche se ancora la donna risente del forte stato di stress che vive e di restrizione in cui è costretta a muoversi. L’interesse, al momento, è focalizzato sull’attività di studio universitario… Il tono dell’umore pur essendo sempre deflesso appare, rispetto al periodo precedente, migliorato…”. Quindi come già detto, trovandomi a dover convivere forzatamente con tanta inaspettata sofferenza, ho cercato istintivamente di raccogliere quanta più pazienza potevo, vivendo giorno per giorno in una stato di continua attesa ed allerta, senza aggrapparmi però a false speranze.



Questo mi ha aiutato ad esempio ad accettare con “filosofia” tutti i successivi rifiuti alle richieste di attenuazione della misura detentiva. La mia vita non era più nella mia disponibilità, era nelle mani e nelle decisioni di altri e né la mia disperazione né la mia rabbia mi avrebbero salvata. Intanto i mesi passavano, il mio cammino benché tutto in salita procedeva a passi che io percepivo pesantissimi. Fui trasferita e al quinto mese mi fu concesso di accedere alla vita in comune con le altre detenute, ci fu la sentenza di primo grado e anche in quell’occasione non ottenni, per l’ennesima volta, la sostituzione della misura cautelare. Era giugno ormai, il caldo avanzava insidioso fra quel cemento in cui anche l’aria faticava a circolare. Frequentemente nelle ore più calde delle giornate più calde, ci interrompevano l’erogazione dell’acqua corrente, e dovevamo sopperire ad ogni tipo di esigenza igienica servendosi di quella raccolta la notte precedente nei secchi e nei catini disseminati nel minuscolo bagno, in cui mancava persino una finestra o una piccola apertura che potesse averne una qualche parvenza. All’inizio dell’estate il mio umore era già a terra, mi sembrava tutto di nuovo immobile, lontano. Poi arrivò il giorno. Il sei luglio.

Quella mattina, come le precedenti, scesi alle nove per lavorare nella biblioteca in allestimento. Terminai alle dodici, risalii in sezione per fare una doccia veloce e all’una riscendere per l’ora d’aria, nonostante il caldo. Alle due risalii in cella e di nuovo sudata mi distesi sulla branda e notai che l’agente aveva lasciato il cancello socchiuso; “che strano” pensai “forse dovrà consegnarci qualche pacco con la posta”, ma quel giorno non c’erano stati i colloqui. Dopo qualche minuto, un tempo che non ti saprei quantificare, mi sentii chiamare dalla stessa agente la quale mi invitava a presentarmi subito al gabbiotto che si trovava al centro del corridoio della sezione. Vidi che era collegata telefonicamente con il padiglione centrarle in cui si trovavano i vari uffici amministrativi, e rimanendo in linea, volle sapere il nome e l’indirizzo di mio padre. Io continuavo a non capire, il primo ed unico pensiero che ebbi fu la preoccupazione che fosse successo qualcosa di grave ad uno dei mie familiari. Mi sentii venire meno. “E’ successo qualcosa a mio padre?" le domandai appena riattaccò. Lei, si voltò verso di me e, accennandomi un sorriso, mi rispose con uno scusabile eccesso di entusiasmo con queste testuali parole che difficilmente dimenticherò "Non è successo niente a tuo padre…è successo... vaffanculo… che te nevai a casa, ti hanno concesso i domiciliari". Non credevo a quello che avevo appena sentito, non avevo la forza di svenire né di urlare, mi venne solo spontaneo di abbracciare quella donna che ricambiò la mia stretta. Corsi totalmente confusa di nuovo in cella ad avvisare le mie compagne e con loro riuscii a piangere e ridere contemporaneamente. Non sapevo che dovevo fare, non sapevo che dire, che pensare, troppo forte l’emozione per quella splendida notizia. Tolsi tutti gli indumenti dal mio armadietto, raccolsi i miei effetti personali, disposi il tutto sulle lenzuola della branda, le richiusi a mo’ di sacca ed ecco pronta la mia valigia per l’inizio del mio viaggio di non ritorno. Di fatto non ebbi il tempo materiale di salutare nessuna delle altre ragazze oltre alle miei due concelline, fra lacrime e sorrisi e un’altra detenuta alla quale riuscii, a lasciare, prima di uscire dalla sezione, il mio fornellino. Come prima cosa scesi a piano terra nella stanza adibita a deposito bagagli. Riconobbi subito la mia borsa sportiva e ci sistemai dentro le mie cose.

Ero già pronta, ma dovetti aspettare un po’ prima di essere scortata nell’edificio centrale, presso l’ufficio addetto alla riconsegna degli averi e dei documenti personali. Quel giorno tanto atteso lo stavo vivendo attimo per attimo e mi pareva un sogno: varcare quei maledetti cancelli, abbandonare per sempre quelle mura era il sogno e non è assolutamente concesso voltarsi indietro nel momento in cui si varca la soglia. Il trasferimento presso l’abitazione di mio padre avvenne con l’auto della Penitenziaria. Mi sembrò di intraprendere il primo viaggio della mia vita, percepivo tutto come nuovo: la luce abbagliante di quel pomeriggio di luglio, i colori intensi, i profumi diversi dagli odori sgradevoli degli spazi chiusi, il paesaggio, il rumore delle auto, la strada che correva dritta davanti a me. Giunsi a casa dopo poco meno di due ore, e trovai ad aspettarmi fuori i miei familiari increduli, emozionati e ancora frastornati. Fu una sorpresa per tutti, perché il mio avvocato per evitare delusioni e dispiaceri, non aveva avvisato né me né loro della presentazione della nuova istanza. Stavolta per una serie di motivi fu accolta e i miei vennero a saperlo nel momento preciso in cui stavo per essere scarcerata. Quel fantastico giorno lo percepisco ancora oggi quasi surreale, come il passaggio in un’altra dimensione. La sera quando finalmente mi distesi nel mio letto, avevo quasi paura ad addormentarmi, la stessa paura che provai la mattina successiva aprendo gli occhi. Ancora non avevo la sicurezza di essere a casa, forse era stato tutto un sogno, un’illusione. Invece al mio risveglio tutto era sempre più vero, ed io stavo iniziando a ritrovare la mia vita.

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