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Legge di Bilancio 2017 | Il bilancio di cartapesta e il bubbone di fine legislatura

Su lavoce.info, il professor Francesco Daveri analizza l’impatto sui conti pubblici del triennio 2017-2019 prodotto dalla legge di Bilancio 2017. Da tale analisi si conferma che il governo italiano sta ponendo solide basi per una crisi di fiducia dei mercati nei nostri confronti, e che il continuo “riporto a nuovo” di aumenti di imposte indirette, nel corso della legislatura, ci finirà in testa. Ma tanto queste cose le sappiamo da molto tempo, giusto?

Nel 2017, come scrive Daveri, ci sono interventi di variazione alla legislazione vigente per 35,7 miliardi, che sono per 16,2 miliardi fatti di riduzione di entrate e per 19,5 miliardi di maggiori spese. Un osservatore frettoloso potrebbe inferire che 16,2 miliardi di “tagli di imposte” non sono malaccio ma sarebbe opportuno ricordare che, di questi 16,2 miliardi, ben il 93% è fatto da disattivazione delle clausole di salvaguardia. Come commenta Daveri,

«Più che un vero impulso all’economia è lo scampato aumento di imposte sui consumi che avrebbe depresso la già debole dinamica delle vendite al dettaglio»

Già. I 19,5 miliardi di maggiore spesa pubblica sono fatti per 15,5 miliardi di spesa corrente e per 4 miliardi di spesa in conto capitale. Il che non è il massimo, in termini di qualità della spesa pubblica. Le coperture per questi 35,9 miliardi “lordi”, vengono da 10,7 miliardi di “maggiori entrate”, che tuttavia sono in misura quasi esclusiva frutto di recupero di base imponibile e “lotta all’evasione”. E anche questo è scritto sull’acqua. Il maggior deficit per il 2017 è quindi di 15 miliardi.

Come impatta la legge di Bilancio 2017 sui grandi aggregati dei conti pubblici nel triennio 2017-2019? Dal confronto tra Nota di aggiornamento al Def e legge di Bilancio 2017, con relativi trascinamenti, due numeri saltano agli occhi: la spesa pubblica aumenta di 19 miliardi di euro, le entrate di 55 miliardi. Ohibò, diranno i miei piccoli lettori, c’è un boom di entrate nel triennio, e come mai? Secondo voi? Coraggio, non è difficile. Accade perché i conti pubblici 2018 e 2019 incorporano le clausole di salvaguardia spinte più in là, per l’ennesima volta. La valutazione la lasciamo a Daveri, che notoriamente non è un estremista:

«Se alla necessità di continuare a fare lo stesso [disattivare le clausole di salvaguardia, ndPh.] per il 2018-19 si aggiunge che nell’agenda politica del 2018 c’è anche il taglio dell’Irpef (non inserito nella manovra di quest’anno ma già vagheggiato), si capisce meglio come dietro alle inquietudini di Bruxelles e dei mercati non ci siano degli stupidi zero virgola o la non volontà di riconoscere le gravi difficoltà dovute a terremoto e rifugiati, ma una diffusa preoccupazione sulla rischiosità di tenuta dei conti pubblici dell’Italia»

Giudizio molto netto, oltre che condivisibile. Che poi è quello che intendevamo quando abbiamo scritto di “bilancio di cartapesta“. Aggiungeremmo solo un paio di considerazioni. Il prossimo anno, di questi tempi, saremo a pochi mesi dalla conclusione della legislatura, se nulla di interruttivo sarà accaduto nel frattempo. Renzi dovrà provvedere alle sue note mance e mancette elettorali con più impeto del solito. In aggiunta, dovrà disinnescare 20 miliardi di aumenti automatici di imposta. Se tanto ci dà tanto, il premier strepiterà come un ossesso contro “gli ottusi burocrati di Bruxelles”, e la butterà in sceneggiata. Auguri, a tutti noi. Ah, altra cosa: se facessimo sparire definitivamente le clausole di salvaguardia, trasformandole in deficit, scopriremmo che il nostro rapporto deficit-Pil sarebbe intorno al 3,5%. Ci avevate mai pensato? Sicuri che siamo così virtuosi? Altra notarella a margine, sul concetto di costo-opportunità: il governo promette per il 2018 il taglio Irpef. Pensate che, se non avessimo buttato nel cesso 10 miliardi annui per gli 80 euro, il taglio Irpef ci sarebbe già stato. “Se me lo dicevi prima”, cantava l’immortale Enzo Jannacci.

E ora, provate a fare un esperimento del pensiero: vista l’inarrestabile deriva dei conti pubblici italiani, pensate a cosa accadrebbe in caso di vittoria del Si al referendum costituzionale del 4 dicembre. Grande euforia, gente che balla per le strade, l’alba di una nuova radiosa era in cui chi deve decidere decide, i tempi si abbattono, il premier ha finalmente le mani libere. Terminata l’euforia, ci si accorge che l’economia continua a battere in testa in modo sinistro, che il rapporto debito-Pil non scende, dopo vent’anni di avanzi primari, che tutto il deficit fatto da Renzi in questi tre anni non ha prodotto la sperata inversione di tendenza nella crescita, che resta asfittica, e che l’economia è in un pericoloso stallo, prossimo all’avvitamento. Alla fine, ci si rende conto che il referendum è stato uno degli abituali sideshow travestito da Giorno del Giudizio, uno di quei diversivi tribali e polarizzanti che tanto piacciono a noi italiani.

L’unica soddisfazione sarà di aver definitivamente seppellito i falliti del passato, gli zombie che volevano trascinarci sotto terra con loro. Così potremo restare soli con il fallito del presente, che completerà la loro opera ma almeno potrà dire di aver avuto l’ultima parola e l’ultimo chiodo, da piantare nella bara del paese.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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