Le quattro giornate di Napoli come difesa civile e popolare
A distanza di 70 anni dal glorioso episodio delle "Quattro Giornate di Napoli" - e vent'anni dopo il saggio scritto per darne un'interpretazione alternativa, come esempio storico di difesa civile, popolare e non armata - Ermete Ferraro s'interroga su cosa ne rimane, oltre le celebrazioni rituali. La recente intervista ad una docente di storia riapre, intanto, l'annoso dibattito fra coloro che si ostinano a forzare le Q.G. di Napoli entro gli schemi di letture politiche predeterminate e ne riafferma invece la natura autenticamente popolare e dal basso.
Settant’anni dopo…
Che cosa rimane nell’immaginario collettivo, a distanza di settant’anni, di un glorioso episodio di resistenza popolare e civile alla violenza di una dittatura militare? Me lo sono chiesto in questi caldi giorni di fine settembre, mentre si sta celebrando il 70° anniversario delle Quattro Giornate di Napoli, alternando le solite commemorazioni ufficiali con eventi culturali diffusi sul territorio. Che cosa significa per i napoletani di oggi quell’incredibile pezzo di storia patria - come si diceva una volta - e, visto che si continua a ripetere che la storia è “magistra vitae”, quale insegnamento ci ha lasciato? A dire il vero la frase completa della citazione ciceroniana era : “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis” (De Oratore II, 9) e perciò, anche in questo caso, viene da chiedersi: di quali tempi quella storia è testimonianza, quale verità illumina ed a quale memoria ridà la vita di cui dovrebbe appunto essere “maestra”, non limitandosi ad essere “messaggera del passato”?
Se scorriamo velocemente le pagine dei giornali delle quattro giornate di questo 2013, l’impressione è che quell’insegnamento ha lasciato una traccia molto esigua. L’unico fatto registrato dalle cronache cittadine che ci riporta inopinatamente a quei giorni di 70 anni fa è stato il ritrovamento nella zona orientale di Napoli di un ordigno bellico inesploso della seconda guerra mondiale. Probabilmente una delle migliaia di bombe sganciate a quei tempi sulla città dagli anglo-americani, provocando oltre 25.000 vittime civili, di cui 3.000 persone morte nel solo bombardamento ‘alleato’ del 4 agosto 1943. Fatta eccezione per questo macabro souvenir di quei drammatici giorni, le pagine dei nostri quotidiani c’informano piuttosto sugli assassini collettivi di oggi, che non sganciano più bombe dal cielo ma nascondono rifiuti tossici sotto terra oppure conservano in ambienti inadatti e malsani tonnellate di cibi avariati da riciclare. Certo, si riferisce anche delle celebrazioni delle storiche giornate della Liberazione della città, ma la vera cronaca ci racconta ben altro e di tutt’altro discutono tra loro i napoletani. Che si tratti della querelle sul destino dello stadio partenopeo o della situazione esplosiva delle carceri; dei ritrovamenti di armi e droga nascoste o delle solite truffe e rapine ai già pochi turisti, viene proprio da chiedersi che n’è stato di quel popolo che 70 anni fa seppe trovare il coraggio di opporsi, con la forza della disperazione, al più potente esercito del mondo, facendolo battere in ritirata.
Ho letto sul Corriere del Mezzogiorno l’intervista di Mirella Armiero a Gabriella Gribaudi, docente ordinaria di Storia Contemporanea al Dip. to di Scienze Sociali della Federico II di Napoli, autrice fra l’altro del libro: Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. Ebbene, l’aspetto che mi ha colpito della sua interpretazione delle “Quattro Giornate di Napoli” è racchiuso già nel sottotitolo dell’intervista e riguarda la natura autenticamente popolare e ‘dal basso’ di questo primo e glorioso episodio della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Ammettiamolo: la nostra storiografia ama poco questo approccio, preferendo di solito restare nell’ambito rassicurante delle interpretazioni politicamente connotate, tendenti ad enfatizzare determinati aspetti e ad espungerne altri, laddove non rientrino nella tesi da dimostrare. È altrettanto innegabile il rischio di cadere, viceversa, in narrazioni venate di fastidioso populismo e stucchevolmente folcloristiche, che non sono però meno politiche ed unilaterali.
Credo che il principale esempio di lettura unilaterale delle vicende che portarono Napoli – la prima città d’Europa a liberarsi da sola dal gioco nazista – sia stato il fatto stesso di puntare i riflettori solo sulle “quattro giornate” in senso stretto (27-30 settembre 1943), trascurando d’inquadrare questo episodio in un contesto storico e sociologico più ampio, che potrebbe invece fornire utili elementi d’interpretazione. In un mio contributo di venti anni fa, infatti, sottolineavo che la resistenza all’opprimente regime che schiacciava Napoli è già leggibile nella dura repressione della manifestazione pacifista degli studenti, convocata a piazza del Plebiscito il 1° settembre, per cui ho provocatoriamente intitolato un altro mio scritto “Le Trenta Giornate di Napoli” (in: AA.VV., La lotta non-armata nella Resistenza, Roma: Centro Studi Difesa Civile – Quaderno n.1).
Resistenza al nazifascismo o ribellione spontanea ?
Il nodo intorno al quale si è avviluppata in questi decenni la lettura storica delle Q.G. è sempre stato quello di far rientrare quella vicenda nelle tradizionali categorie della insurrezione spontanea oppure delle rivoluzione organizzata e strutturata. Il problema è che, come scrivevo allora:
“…sia i testi d’ispirazione liberaldemocratica, sia quelli ideologicamente orientati in senso marxista, non si differenziano poi di molto quando affrontano la guerra e la violenza, o meglio, quando fanno praticamente dipendere l’evoluzione della civiltà umana da una sequela di battaglie e rivoluzioni, di cui i popoli restano sostanzialmente spettatori e vittime, mai protagonisti reali. Una chiave di lettura più politica o più economicista non modifica, infatti, i rapporti emergenti dai manuali di storia, lasciando negli studenti la netta sensazione che senza ‘leaders’ e senza generali non si faccia storia…”
La versione delle Q.G. che la prof.ssa Gribaudi accredita nell’intervista citata sembra fortunatamente andare contro corrente, restituendo alla gente di Napoli il ruolo di protagonista troppo spesso attribuito a quadri politici e militari o, sul versante opposto, ad una massa indistinta di popolani e scugnizzi.
"L’interpretazione delle Quattro giornate è sempre stata politicizzata. La sinistra però le ha mitizzate fino a un certo punto. In un certo modo se n’è impadronita e ha cercato di enfatizzarle come primo episodio della Resistenza, ma al tempo stesso il moto non rispondeva ai modelli della lotta comunista e quindi è stata considerata una rivolta di serie B. In realtà le Quattro giornate sono davvero una rivolta dal basso, avvenuta quando non c’era ancora il Comitato di liberazione nazionale. La ribellione ai tedeschi si organizzò in base ai quartieri e alle strutture di base della città. Parteciparono i soldati e anche gli studenti che erano larvatamente antifascisti. Ma bisogna considerare che l’antifascismo ancora non esisteva in forme organizzate".
La verità è che i napoletani hanno cominciato a reagire all’arroganza militarista dei tedeschi già nei primi giorni di settembre del ’43 e che in quella resistenza c’era un po’ di tutto: dai soldati sbandati dopo l’armistizio agli studenti liceali ed universitari, infiammati da alcuni professori antifascisti; dagli uomini direttamente minacciati dai feroci diktat nazisti alle loro famiglie, donne in testa, che fecero il possibile e l’impossibile per evitarne il rastrellamento. In questo senso la Gribaudi parla di “moto insurrezionale”, sottolineando però anche l’insubordinazione massiccia dei napoletani al proclama del col. Schöll ed alle intimidazioni dei fascisti locali (su 30.000 giovani precettati se ne presentarono solo 150). Quella che scattò allora, a mio avviso, fu un’autentica “auto-difesa” di una Napoli umiliata e offesa, colpita nella dignità ma in primo luogo negli affetti più cari. Dietro questa rivolta c’erano stati momenti di coordinamento ed una sorta di strategia, ma personalmente vedo affiorarne soprattutto la forza antica e disperata d’un popolo con alle spalle secoli di oppressione straniera, di occupazioni militari e di regimi dispotici, e che non è più disposto ad “obbedir tacendo e tacendo morir”.
Il luogo comune che vorrebbe ridurre la rivolta della gente di Napoli a quattro giorni di combattimenti è poi lo stesso movente della riduzione del numero delle sue vittime a poche decine, mentre la prof.ssa Gribaudo riferisce di 663 morti - 69 dei quali donne - riscontrati nei registi dei morti del Comune di Napoli. Si tratta di un numero che lascia pensare ad una partecipazione abbastanza diffusa della popolazione civile, il cui inquadramento politico e militare era comunque piuttosto esile e le cui motivazioni sono ideologizzabili fino ad un certo punto.
Questo non significa che si sia trattato di una rivolta spontaneistica da nuovi ‘masanielli’ o che si possa enfatizzare interessatamente la c.d. “rivolta degli scugnizzi”, insistendo sulla retorica perversamente folcloristica del ‘bambino-soldato’, immortalato da dozzine di fotografie che ritraggono nugoli di ragazzini dei vicoli che stringono fucili più alti di loro. Il risultato di questo contrapporsi di versioni negazioniste o troppo ideologizzate è stato - come giustamente sottolinea la storica nell’intervista citata - che:
“…destra e sinistra hanno fatto sì che l’insurrezione di Napoli fosse tirata di qua o di là politicamente senza analizzarla sul serio. [...] Nell’immaginario collettivo si diffonde non la Napoli che disobbedisce ma quella delle prostitute e del mercato nero, che conferma gli stereotipi già esistenti sulla città. [...] La città viene sempre ricordata per i suoi atteggiamenti compromissori, per la scarsa politicizzazione. Invece quell’episodio racconta un’altra storia di Napoli”.
Oltre negazionismo, riduzionismo e retorica partigiana: una lettura delle Q.G. come resistenza civile
A settant’anni da quegli eventi storici penso che sia giunta l’ora di dismettere la retorica e di analizzarli seriamente, senza pregiudizi e senza tesi precostituite. Purtroppo la scarsa diffusione del pensiero nonviolento e delle varie teorie esistenti sulla difesa civile non consentono di valutare adeguatamente l’importanza d’un episodio significativo come le Q.G. di Napoli. Un libro recente come quello di Antonino Drago (Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo. I fatti e le interpretazioni, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010) risulta quindi particolarmente utile a chi voglia comprendere la diffusione di esperienze di difesa popolare, nonviolenta, sociale e comunque non armata, di cui 67 censite nel solo periodo dal 1972 al 2005. Le domande formulate dagli studiosi partecipanti al convegno di Oxford del 2007 sono comunque utili per analizzare anche episodi precedenti di resistenza civile. Esse riguardano gli attori principali di queste rivolte, le motivazioni delle coalizioni, gli strumenti utilizzati, la politica risultante, le effettive ripercussioni sul sistema politico e se i resistenti abbiano subito violenza e in che misura.
Lo studio più completo e recente in proposito ha rivelato che nel secolo scorso ci sono state nel mondo ben 323 rivoluzioni. Di quelle che hanno presentato una caratterizzazione latamente non violenta si è rivelata vittoriosa 1 su 1, mentre nel caso delle rivoluzioni violente il successo è riscontrabile solo in 1 caso su 4. Secondo l’analisi di A. Drago, le caratteristiche di queste fondamentali esperienze, di cui troppo poco si parla, sono sostanzialmente. (a) la consapevolezza che nonviolenza non vuol dire passività; (b) la trasformazione creativa e non violenta della realtà; (c) il coinvolgimento di persone di ogni classe ed età; (d) l’utilizzo di reti di persone che propongono una trasformazione profonda della società. È questo, ribadisce Drago, che ha consentito alle rivoluzioni nonviolente di “frantumare la forza della repressione”.
Ebbene, se rileggiamo la liberazione di Napoli del 1943 alla luce di queste considerazioni, è possibile riscontrarvi l’utilizzo di tutte le tecniche della resistenza non violenta: dalla disobbedienza civile alla creazione di organi di governo paralleli; dalla solidarietà con le altre vittime dell’oppressione alla non-collaborazione con gli oppressori; dal boicottaggio nelle sue varie forme all’impiego di altre forme di opposizione non armata. Stando ai parametri sopra elencati, appare chiaro che la consapevolezza di questa lotta popolare e civile non fu sicuramente alta né diffusa, ma è innegabile che le Q.G. abbiano coinvolto in una resistenza per nulla passiva persone di ogni età ed estrazione, creando reti territoriali di coordinamento della resistenza e di diffusa solidarietà sociale.
“Il 1° ottobre, quei carri armati che avevano sfilato minacciosamente contro i giovani pacifisti abbandonano per sempre una città che li ha saputi scacciare con la sua forza d’animo prima ancora che con moschetti e bombe a mano. I 47 ostaggi in mano ai tedeschi, nel campo sportivo del Vomero, vengono liberati in cambio della vergognosa fuga di Schöll. L’uomo che avrebbe dovuto ridurre Napoli “fango e cenere” ne fugge in un’auto chiusa, che ostenta fazzoletti bianchi in segno di resa…” (E. Ferraro, op.cit. , p. 93)
In questi giorni, ricercando su Internet immagini di archivio sulle Q.G., ho dovuto constatare con disappunto che rappresentavano al 95% barricate di giovani armati, vittime crivellate dai colpi del ‘nemico’ oppure spavaldi scugnizzi con improbabili elmetti sulle teste rasate ed enormi fucili tra le esili braccia. Ovviamente questo è un altro frutto della solita retorica della resistenza armata, ma rappresenta anche un oggettivo dato storico-documentario. È ovviamente molto più facile raffigurare scene di guerriglia e di lotta armata anziché episodi di resistenza civile, fondata sulla non-collaborazione o sulla disobbedienza. Sappiamo bene che la solidarietà, la fermezza, la dignità non sono fotografabili come una barricata fumante o un ribelle che lancia una bomba a mano. Questo però non dovrebbe mai farci dimenticare la lezione di tante rivoluzioni civili e, nel caso specifico, non deve ridurre le Q.G. di Napoli ad un episodio della liberazione dell’Italia dal nazifascismo da enfatizzare retoricamente o da ridurre in modo caricaturale.
La resistenza dei napoletani è stata e resta un eccezionale modello di opposizione vincente ad un feroce regime militare. Rappresenta dunque un fondamentale esempio di difesa civile ed autenticamente popolare che, a distanza di 70 anni, sarebbe inutile ed ipocrita rievocare, se non c’è la volontà di trarne spunto per una nuova resistenza contro l’ingiustizia sociale, la devastazione ambientale, l’occupazione militare del territorio e la narcotizzazione della coscienze che produce rassegnazione.
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