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Le donne e la carriera scientifica

A coprire il ruolo di rettore in Italia, su 82 posti disponibili, ci sono solo sei donne. La metafora del soffitto di cristallo è riduttiva, perché le origini della situazione attuale sono antiche, da cercarsi quando la scienza come la conosciamo oggi stava nascendo e mettendo a punto il proprio metodo sperimentale.

di Marco Boscolo

 

Secondo il sito della CRUI, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, a ricoprire oggi il ruolo sono solo 6 donne su di un totale di 82 posizioni disponibili. Tradotto in termini percentuali equivale al 7,3%. La situazione migliora, ma di poco, se si prende in considerazione la lista delle università di Wikipedia: le rettrici sono 6 su 68, ovvero l’8,8%. Questa fotografia impietosa delle difficoltà delle donne di raggiungere le cosiddette posizioni apicali nella gerarchia dell’accademia italiana (ma non solo) è spesso raccontata con la metafora del soffitto di cristallo: invisibile, eppure molto concreto nel bloccare la salita verso i vertici delle donne.

Secondo però Maria Carmela Agodi e Ilenia Picardi, studiose delle questioni di genere all’interno dell’università italiana all’Osservatorio di genere sull’università e la ricerca dell’Università di Napoli, si tratta di una visione riduttiva, utile per descrivere a grandi linee il problema, ma non è adeguata. Prendendo a prestito le parole che le due studiose hanno usato nella presentazione della mostra-laboratorio intitolata Il labirinto di cristallo che apre il 12 marzo all’Università di Napoli (in Piazzale Vecchio, presso la Scuola Politecnica e delle Scienze di Base), la “metafora ha avuto il merito di alimentare il dibattito pubblico sulle difficoltà delle donne nella progressione di carriera, ma alla luce della recente letteratura sui gender studies in accademia, oggi è da ritenersi semplicistica, se non addirittura fuorviante”. E per capire perché, è utile partire dai dati.

I numeri in Europa

Prendiamo in considerazione il dottorato di ricerca (e i suoi equivalenti nei diversi sistemi nazionali) come il primo passo della carriera nella ricerca. Secondo i dati del rapporto She Figures che la Commissione Europea ha pubblicato nel 2015 (il più recente a disposizione, il nuovo secondo la scadenza triennale dovrebbe arrivare a fine 2018), nell’Unione a 28, tra il 2004 e il 2012, si è passati da una componente femminile tra coloro che conseguono il dottorato di ricerca pari al 43,4% al 47,3%. Poco meno di un dottore di ricerca su due in Europa è donna. Qui stiamo prendendo in considerazione tutte le aree disciplinari, non solamente quelle scientifiche, ma sono numeri utili per iniziare a delineare lo scenario.

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Si tratta di una situazione che riflette largamente l’andamento delle lauree. Dallo stesso documento, per lo stesso periodo, scopriamo che le donne laureate nei paesi dell’Unione sono passate dal 43,6% al 47,4%.

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Se all’interno di questa fotografia generale zoomiamo sulle singole discipline, noteremo che la distribuzione della porzione femminile non è equa. Cominciamo a intravvedere un tipo di distinzione tra i generi che porta a un particolare tipo di segregazione.

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Nei settori delle scienze, della matematica, dell’informatica e in quello ingegneristico la componente femminile è piuttosto diversa da, per esempio, quello umanistico o quello del settore dell’educazione. Si tratta di una “segregazione orizzontale”, spiega a OggiScienza Ilenia Picardi, “che si affianca a quella verticale” che riguarda la possibilità di salita nella scala gerarchica dell’accademia. Il sistema accademico, come riflesso anche dei pregiudizi sociali in cui si instaura, spinge le donne verso settori ritenuti più adeguati alle caratteristiche stereotipiche delle donne. Non a caso una parte di essi ha a che fare con l’ambito della cura e dell’educazione. “Oltre alle difficoltà nel corso della carriera”, continua Picardi, “questo è un altro modo in cui il genere esercita un ruolo nel condizionare i percorsi delle donne”. La scelta della materia di studio non è quindi neutra rispetto al genere, ma rispecchia e ribadisce una serie di stereotipi sul ruolo che ritroviamo anche nella società in generale.

Il tubo che perde

Se la metafora del soffitto di cristallo ha avuto grande successo, anche mediatico, all’interno del mondo della politica europea c’è una seconda metafora largamente usata, quella della leaking pipeline che racconta la presenza sempre più scarsa di donne mano a mano che si sale nella gerarchia accademica. La situazione è ben evidenziata da un semplice grafico, dove si vede la netta differenza nell’ambito scientifico della predominanza di uno o dell’altro genere avanzando lungo la carriera scientifica:

NOTA: ISCED 5 indica grosso grossomodo il livello della laurea, ISCED 6 quello del dottorato, A,B,C tre diversi livelli post-dottorato. Clicca sull’immagine per consultare la versione completa del grafico

Ma la conferma arriva anche andando a calcolare il rapporto donne/uomini per singoli paesi europei. In Belgio, nella sezione “altro staff” che comprende il personale di supporto alla ricerca (per esempio, il personale amministrativo) ci sono 2 donne ogni uomo impiegato. All’altro estremo dello spettro, ci sono due donne impiegate ogni tre uomini. E la situazione, con oscillazioni non particolarmente larghe, è piuttosto diffusa.

Clicca sull’immagine per consultare la versione completa del grafico

Il labirinto di cristallo

Ma anche questa fotografia, e la conseguente metafora del tubo che perde, è parziale. “Sia l’idea del soffitto di cristallo, sia quella della leaking pipeline“, spiegano Agodi e Picardi, “presuppongono che ci sia un solo percorso di carriera possibile. Il tubo, in particolare, sembra indicare una linearità che non corrisponde a quanto accade nella vita reale”.

In più, aggiunge Agodi, “si tratta di una schematizzazione economicistica per cui le donne che vengono perse lungo questo tubo sarebbero l’equivalente di uno spreco”. Come se altre scelte, rispetto a quelle della carriera accademica non fossero dello stesso valore, “quando invece possiamo contare su di una serie di studi sociologici che mostrano come le donne che escono dal percorso accademico possono andare ad occupare posizioni interessanti in settori di nicchia e innovativi”. Dove magari il prestigio che ne deriva non è ancora riconosciuto a livello sociale.

“C’è poi da considerare che i percorsi possono essere variegati”, aggiunge Picardi, “e possono prevedere non solo entrate e uscite dall’accademia, ma anche cambi di settore, diverse velocità di progressione all’interno del proprio percorso e via così”. Per questi motivi preferiscono parlare di labirinto di cristallo, con vicoli ciechi, svolte improvvise e diverse uscite ed entrate. Si tratta di una metafora più aderente alle storie di donne a vari stadi della carriera che le stesse due ricercatrici hanno raccolto per analizzare il problema e raccontato in un volume curato da Picardi stessa, appena pubblicato (e consultabile in pdf qui).

I testimoni modesti che non possono essere donne

Se i dati raccontano quale sia la situazione, è possibile provare a identificare le cause? Non è facile, perché come ogni fenomeno che avviene all’interno di un contesto sociale è influenzato da diversi fattori allo stesso tempo, ma di sicuro la sociologia della scienza ha provato ad andare a trovare l’origine sistemica della discriminazione nei confronti delle donne. “Si può farlo risalire all’età moderna, proprio quando la scienza come la conosciamo oggi stava nascendo e stava mettendo a punto il proprio metodo sperimentale”, racconta Agodi.

A quel tempo Robert Boyle si pone il problema di come dare oggettività ai risultati dei suoi esperimenti. Si inventa il teatro sperimentale a cui assistono dei testimoni che osservano e rendono conto dei risultati delle sperimentazioni. Per dare valore di oggettività a questa pratica, suggerisce Boyle, i testimoni, detti modesti, devono essere liberi da qualsiasi interesse personale nella vicenda e non devono presentare alcuna dipendenza per il proprio sostentamento. Due criteri che, di fatto, escludono gli stessi tecnici che aiutano lo scienziato nell’esperimento e le donne che, nella società dell’epoca, non hanno possibilità di essere indipendenti economicamente. In pratica, l’atto stesso di nascita della neutralità del metodo scientifico “esclude le donne dalla scienza stessa”. Il problema è che nei secoli successivi, “quando le donne hanno cominciato a fare parte dell’impresa scientifica”, spiega Agodi, “il modello così fondato non è stato ridiscusso per adeguarlo all’inclusione del genere femminile”.

Leadership e il farsi avanti

Tornando alle sole 6 rettrici italiane, questo processo di costruzione dell’impresa scientifica che tende a escludere le donne è evidente quando ci si concentra sul modello di leadership che è dominante all’interno del mondo della ricerca. Quando le donne occupano ruoli apicali, nonostante siano in netta minoranza rispetto ai colleghi uomini, “vengono usate come dimostrazione che in realtà non c’è nessun ostacolo”, spiegano Picardi e Agogi, “e che le donne possono fare carriera tanto quanto gli uomini”. Ma è una giustificazione viziosa che riconferma il modello imperante: le donne stesse usate come specchietto per le allodole che svia l’attenzione del fatto che “il modello di leadership imperante non prevede variabilità, non prevede l’inclusione di altre modalità”, rispetto a quelle che si sono costruite a partire dai tempi di Boyle.

Gli stereotipi di genere possono essere anche usati contro le donne stesse per riportarle all’interno del frame di riferimento generale e provare a dimostrarne una pretesa inadeguatezza rispetto al ruolo. Basta pensare alle donne che si fanno avanti cercando di seguire il modello di leadership predominante e vengono per questo ridicolizzate. Esempio concreto: gli epiteti sessisti contro la Hillary Clinton candidata contro Trump che, vista come donna forte (e quindi in un certo modo maschile), veniva definitiva da alcuni sui detrattori come “the bitch“.

Un altro modo di giustificare lo stereotipo è accusare le donne stesse di non farsi avanti. Che però è un’argomentazione che non fa altro che riproporre il modello unico: se non ti rappresenta è un problema tuo, non del modello. Non si riconosce, cioè, che è il modello non aiuta le donne a farsi avanti, ma anzi le frena, bensì che sono loro a non possedere le caratteristiche giuste per rientrarvi.

La consapevolezza arriva spesso tardi

I pannelli della mostra napoletana sono pensati come un’esemplificazione generale dei dilemmi e delle difficoltà che le donne affrontano nel loro percorso accademico. Sono una rappresentazione il più vicino possibile alla realtà e lontana dagli stereotipi con cui normalmente ci si riferisce al sistema e sono pensate soprattutto per un pubblico di studenti e studentesse delle scuole superiori e dell’universitarie. “Proprio le donne più giovani sono quelle che hanno meno consapevolezza dell’esistenza del labirinto di cristallo”, illustrano Agodi e Picardi, “perché è il cumulo delle esperienze a dare la consapevolezza, spesso attraverso uno sguardo retrospettivo sul proprio percorso”. Motivo in più per cominciare a riflettere sul ruolo del genere nella scelte già dalla scuola.

Ma si tratta di una necessità di consapevolezza che la riflessione sul tema del genere all’interno della carriera accademica non deriva solamente dalla necessità di trattare uomini e donne in maniera egualitaria, ma significa rifiutare l’idea che esista un solo modello di riferimento e, per tanto, includere all’interno del processo di ricerca punti di vista e varietà che non fanno altro che arricchire la scienza stessa.

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Questo articolo è stato pubblicato qui

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