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Le dimissioni all’italiana

In un paese come l’Italia, le dimissioni del presidente del Consiglio non potevano essere rassegnate che all’italiana: mi dimetto, ma con calma, che è tutta questa fretta. Questa volta però di tempo ce n’è davvero poco. E non c’è da dar conto soltanto agli italiani che, sebbene di lingua lunga, si sono rivelati di memoria piuttosto corta, quanto all’Europa che di corto non ha nulla se non il braccino.

Ma facciamola breve. Non si può analizzare la situazione politica nazionale senza tenere in considerazione quella economica internazionale, dacché sono molte le sorti appese al filo della nostra legislatura. Non sappiamo, ad oggi, quale siano le reali intenzioni di Berlusconi, tantomeno se abbia lasciato il Quirinale con sul volto un sorriso beffardo come a dire: “Ti ho fregato di nuovo”.

Le ipotesi sono due, sostanzialmente: la prima è che abbia davvero intenzione di rassegnare le dimissioni, non senza badare al suo personale tornaconto, politico o personale che sia. Se e quali leggine ad personam inserirà nel maxi-emendamento alla legge di stabilità, solo Dio lo sa. Ma questa è forse, difficile a crederlo, l’ipotesi più rosea.

Quella più negativa invece è questa: Berlusconi sottopone all’esame del Parlamento una legge finanziaria con dentro, tra le altre, norme 'critiche' per una parte dell’aula, e nella fattispecie per l’opposizione, come ad esempio quelle sulle pensioni o sull’articolo 18.

Il risultato sarebbe annunciato: l’opposizione, che già tanto ha faticato a trovare una comunità d’intenti, si spaccherebbe, e il governo troverebbe nuova linfa per tirare avanti, seppur trascinandosi. Ma a quest’ultima ipotesi, è bene precisarlo, c'è poco da crederci. Nel Pdl tutti si sono resi conto, seppure con colpevole ritardo, che un ciclo è finito e che la legislatura non potrà avere una conclusione se non in anticipo rispetto alle regolari scadenze o con un esecutivo diverso da quello attuale. Non perché lo chiede l’Italia, quanto perché lo impone l’Europa.

Ma proprio perché dobbiamo guardare con un occhio all’Italia e con l’altro all’Europa, c’è da pensare a quel che accadrà subito dopo le dimissioni di Berlusconi. Anche qui le ipotesi sono essenzialmente due. Quella delle elezioni anticipate è la via caldeggiata da Pdl e Lega, e hanno buone ragioni per farlo. Le prossime elezioni le hanno già perse, quindi continuare a reggere per i denti l’anima di questa legislatura non si capisce a chi giovi. Con un restyling di facciata, Alfano al posto di Berlusconi, e una fase di forte instabilità sociale, alla quale andremo incontro non appena verranno attuate le misure economiche che l’Europa ci chiede, avranno vita facile nella lotta a coltello con i loro avversari politici.

D’altro canto il Terzo Polo non sapendo ancora se allearsi con qualcuno e soprattutto con chi, è quello che rischia di pagare il prezzo più alto per l’instabilità politica di questo momento (un momento che dura dalla Costituente, per inciso). È per questo che le opposizioni pensano ad un governo tecnico guidato da Mario Monti, persona dalle indubbie qualità e che gode della fiducia di tutto il panorama politico, in primis del Capo dello Stato Napolitano che lo ha prestamente nominato senatore a vita (tanto per far capire ai parlamentari cosa devono fare, dacché da soli non sembrano essere in grado di arrivarci). La sinistra avrebbe in tal caso altro tempo per riorganizzarsi, o meglio di organizzarsi per la prima volta dacché non si è mai data un vero e proprio garbo politico. In effetti, la sinistra ancor prima di vincere le elezioni quasi fa rimpiangere il dimissionario Berlusconi che un’unità d’azione, se non sulla base degli intenti, per lo meno su quella dei compensi l’aveva tuttavia raccattata. Al netto dell’ironia, un governo tecnico darebbe tempo a Bersani di costruire una valida alternativa, che per ora, checché se ne dica, non c’è.

Nel caso di un governo Monti, lamentano però alcuni, la scelta di un uomo esterno agli schieramenti partitici sarebbe la certificazione tombale dell’incapacità di questa classe politica di risollevarsi da sola. Di più, un governo di larghe intese sarebbe la morte della martellante illusione che ci hanno propinato fino ad oggi sull’imprescindibilità del bipolarismo. Ebbene, siamo arrivati per l’ennesima volta a due conclusioni che davamo già per acquisite. Il prima è che questa classe politica va definitivamente accantonata per fare spazio a una nuova. E l’altra è che, ad oggi, l’Italia non è pronta per un vero bipolarismo, la nostra tradizione partitica e politica ancora non ce lo consente, nè forse ce lo consentirà mai.

Che questa classe politica abbia fallito tutti i programmi che si era prefissata, è sotto gli occhi di tutti. Qualcuno storce il naso, però, quando si spera in un'intromissione dell’Europa negli affari politici interni. L’impotenza dell'Italia di risollevarsi da sola sembra essere, più che un rammarico, una presa d'atto a cui non si può e non si deve sfuggire. L'Italia, se non cambia l'andazzo, da sola non ce la farà. Le stesse dimissioni di Berlusconi non sono arrivate alla fine di una manovra politica tutta italiana, quanto per un imposizione perentoria dei mercati, che del modo di fare italiano ne hanno già piene le scatole.

L’Europa in effetti è per l’Italia quello che la suocera è per le giovani coppie da poco sposate: un fastidioso personaggio che gira per casa, e che non vediamo l’ora di mettere alla porta, se non fosse che senza di lei non sapremmo come riportare a casa i bambini dopo la scuola. I bambini, si capisce, siamo noi italiani. 

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