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Le buone ragioni della razionalità

In un mondo insensato come il nostro la razionalità non va tanto di moda. Eppure Steven Pinker, uno dei più importanti pensatori contemporanei, afferma che agire razionalmente è la premessa indispensabile per avere una vita ancora più piacevolmente emozionante. Ne parla Raffaele Carcano sul numero 1/2022 della rivista Nessun Dogma.

Deve pur esistere qualcosa. Qualcosa che ci rende mediamente più scontenti e più arrabbiati del resto della popolazione. Sempre a lamentarci di come va il mondo, o di dove non va e non sembra proprio voler andare. Non dispongo di statistiche in merito: ma decenni di attivismo qualcosa dimostreranno, no? È solo questione di tempo, ne sono convinto: tra qualche decennio verrà scoperto il virus o il gene che infierisce su di noi.

Nel frattempo, però, qualcuno pensa di aver trovato già la cura. Steven Pinker ci ha preso gusto, a pubblicare libri ottimisti che riscaldano (senza surriscaldarle) le nostre menti, sussurrandoci alle orecchie che dobbiamo essere contenti, perché stiamo dalla parte giusta della storia umana. Dopo Il declino della violenza (2011) e Illuminismo adesso (2018), è ora il turno di Razionalità. E come potevamo non scriverne su un giornale pubblicato da un’associazione di sedicenti razionalisti?

Per dare una minima idea dell’importanza di Pinker, basterà ricordare che si tratta di uno dei più importanti pensatori contemporanei, inserito dalla rivista Time tra le cento persone più influenti al mondo. Razionalità è già un bestseller ed è stato pubblicato in italiano contemporaneamente all’edizione inglese, e basta questa circostanza – ormai rarissima per un saggio – a dar conto dell’importanza che gli viene attribuita. La stima che riscuote l’autore non è tuttavia unanime. Forse a causa della sua passione per le evidenze e la bontà delle argomentazioni: due qualità che non vanno molto di moda, oggi, nemmeno nel mondo intellettuale.

In Razionalità c’è talmente tanto materiale che non si sa nemmeno da dove iniziare. Tanto vale farlo, allora, togliendosi subito il dente dolente: la ragione, a detta del suo stesso apologeta, non «è fica, uno schianto, da urlo, uno sballo, una bomba o mitica, e in senso stretto non posso nemmeno giustificarla o razionalizzarla». È sempre stato così. C’è stata, è vero, la stagione d’oro dell’illuminismo, dopo la quale il movimento romantico le ha però platealmente contrapposto l’emozione, i sentimenti e il piacere. Ed è vero ancora oggi, in cui l’irrazionalità, l’intuito, «l’immaginazione al potere» sono diventati cavalli di battaglia di numerosi filosofi trendy. La replica di Pinker è di tipo utilitaristico: mancherà anche di appeal, la ragione, ma ci tocca comunque seguirla. Lo facciamo già, lo facciamo spesso, lo facciamo più spesso di quanto ci sembra, e lo fanno anche gli irrazionali e i filosofi che la criticano, perché si affidano frequentemente ad altri che fanno altrettanto – e che spesso indossano un camice bianco.

Secondo Pinker, la razionalità è la «capacità di usare la conoscenza per raggiungere obiettivi. La definizione standard di ‘conoscenza’ è a sua volta “credenza vera giustificata”». La sua è una accezione più vicina all’impiego che ne viene fatto che a quella fornita dai vocabolari, che la circoscrivono all’uso della ragione o all’esserne dotato. Legandola alla conoscenza e agli obiettivi, Pinker vuole evitare ogni possibile tautologia (come quella contenuta nel titolo di questo articolo), cercando di tracciare il percorso di quello che dovrebbe essere il suo corretto funzionamento. Che in estrema e semplicistica sintesi è più o meno il seguente: premesso che «c’è una verità oggettiva e io non la conosco (e neanche voi)», la qualità dei dati disponibili e la loro corretta analisi ci permette di soppesare adeguatamente le alternative, e di effettuare quindi le scelte maggiormente capaci di farci raggiungere gli obiettivi che abbiamo preventivamente individuato.

Nessun algoritmo in stile Google, beninteso. Semmai una “sana” attenzione per i numeri. Nonostante i luoghi comuni, questa non è una mission impossible per la nostra specie: lo confermano il successo delle pagine dedicate agli eventi sportivi e alle quotazioni di borsa. L’uso della ragione richiede però uno sforzo, e gli esseri umani sono estremamente selettivi nella scelta dei fini che lo richiedono. È per questo motivo che Pinker, lungi dall’essere un bulldozer della razionalità, evidenzia la razionalità dei San, forse la più antica popolazione umana sopravvissuta nel mondo contemporaneo, sottolineando che nemmeno essi sono alieni dal pensiero logico e dalla valutazione delle probabilità: la differenza è che li applicano soltanto in ambiti specifici. Si comportano allo stesso modo tutti coloro che si pongono obiettivi che non ci piacciono affatto, ma che spesso (non sempre) rappresentano comunque l’esito di un ragionamento corretto. Tutto sommato anche i dogmatici ragionano, ma limitano il ragionamento a cercare di giustificare un dogma basato sull’inconoscibile.

Pinker non biasima infatti granché i social network. A suo dire sono solo l’espressione odierna di difetti di ragionamento, presenti nell’intera storia umana, che per le loro caratteristiche amplificano la difficoltà di valutare le informazioni ricevute. O addirittura ricercate: uno dei massimi problemi della nostra specie, che si presenta nelle situazioni più disparate, è il bias di conferma, l’innata tendenza a prestare una speciale attenzione a ciò che rafforza le nostre precedenti opinioni, rigettando con fastidio ciò che invece le smentisce. Internet è soltanto il più efficiente tool mai inventato da homo sapiens per trovare fonti che sostengono le sue credenze, anche quando sono sbagliate: con i giornali era più difficile. E oggi molti giornali imitano apertamente il web…

A riuscire a far deprimere persino Pinker è arrivata poi la scoperta, scaturita dagli studi realizzati da Dan Kahan, che «sono altrettanto all’oscuro dei dati scientifici, per la maggior parte, coloro che vi credono e coloro che li negano. […] A predire le loro convinzioni è la posizione politica». È un bias strettamente collegato a un altro che appare a Pinker parimenti (se non più) pericoloso, il myside bias (“il bias della mia fazione”): l’aprioristico pregiudizio, discendente dalle nostre appartenenze, che ci porta a pensare e comportarci secondo le regole delle fazioni di cui vogliamo far parte, che «più che a tribù in senso stretto, tenute insieme da legami di parentela, sono simili a sette religiose, tenute insieme dalla fede nella propria superiorità morale e dal disprezzo per le sette avversarie». Un bias che ha sempre avuto un’applicazione pratica particolarmente deleteria: «la gente esprime opinioni che pubblicizzano da che parte sta. Per quanto riguarda il destino di chi le esprime in un dato ambiente sociale, ostentare tali distintivi di fedeltà è tutt’altro che irrazionale. Dare voce a quella che in un certo ambito è un’eresia, come rifiutare il controllo delle armi fra democratici o sostenerlo fra repubblicani, può costare a una persona il marchio di traditore». Cambiare pubblicamente opinione è quindi spesso un’impresa titanica, perché può mettere a repentaglio la nostra reputazione.

Conformandoci alle credenze altrui, però, rinunciamo a ciò che Pinker ritiene essere il vero «potere della ragione: può ragionare su sé stessa». Siamo esseri fallibili, l’eventualità di sbagliare rappresenta una parte significativa dell’esistenza, e quando capita occorre quindi tornare indietro, riesaminare il processo e intervenire dove si è rivelato errato, sia individualmente sia collettivamente. Proprio perché non possiamo sapere tutto, e in realtà sappiamo pochissimo, siamo costretti (tutti) ad «appaltare la conoscenza a istituzioni specializzate nel produrla e condividerla, in primo luogo il mondo accademico, i centri di ricerca pubblici e privati, e la stampa». Un esempio supremo di razionalità, quello che «emerge da una comunità di ragionatori che individuano le reciproche fallacie», e che rende il metodo scientifico soltanto un modo (benché più significativo di altri) di condurre una perpetua discussione razionale tra umani. Conservando i successi e prendendo atto dei fallimenti, «i benefici possono accumularsi, e noi chiamiamo questo grande quadro “progresso”». Quello che ci ha permesso, solo per fare l’esempio che ci sta più a cuore, di allungare e arricchire le nostre vite.

Pinker enfatizza la dimensione collettiva della razionalità e contrappone ai social l’esperienza di Wikipedia, che attraverso regole definite tenta di assicurare l’obiettività. Ma l’ambito in cui la razionalità si dovrebbe manifestare al massimo delle sue potenzialità è ovviamente quello del governo, e non a caso alcuni filosofi vi hanno fatto riferimento usando l’espressione «ragione pubblica». Purtroppo, se ne lamentava già Cesare Beccaria, «strano parrà a chi non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice delle nazioni». Son passati due secoli e non soltanto la constatazione è ancora valida, ma è rafforzata da due domande imbarazzanti: se siamo convinti che gli esseri umani siano irrazionali, perché affidiamo loro le scelte di governo attraverso l’esercizio del voto? Come è possibile conciliare la democrazia con una politica fondata sulle evidenze?

Pinker pensa che sia importante presentare i temi politici in modo neutrale, spingendo gli elettori a basare le scelte su logica e prove. Ma ritiene che il meccanismo democratico funzioni comunque lo stesso, se è vero – come mostra nell’ultimo capitolo – che i progressi umani degli ultimi secoli sono il frutto di idee concepite razionalmente. Considera le istituzioni capaci di amplificare la portata della ragione, e giudica non difficile fondare sulla ragione anche la moralità. Anche la regola d’oro è una norma razionale ed è stata enunciata in ogni epoca, religioni comprese.

Dalle quali tuttavia Pinker si distanzia nettamente, derubricandole in pratica a fake news – se non a loro paradigma prototipico, e potremmo discutere a lungo se essere razionali sia più umano o più umanista. In ogni caso, se Benedetto XVI amava celebrare la «retta ragione» cattolica, lasciando intendere che esistevano ragioni scorrette (le nostre, per esempio), anche Pinker distingue due mentalità che contraddistinguono tutte le persone: quella «della realtà», che cogliamo con l’esperienza immediata e ben difficilmente possiamo negare, e quella che ci sfugge, come il passato lontano o il futuro, e che non a caso chiama «mentalità della mitologia». Anche perché è un ambito in cui il racconto, l’ideologia, la morale, la demagogia la possono fare da padrone. A scapito, quindi, proprio della razionalità.

Per non lasciare nulla di intentato, il volume ricorda anche un pensiero di Bertrand Russell, secondo cui «sarebbe opportuno non prestar fede a una proposizione fino a quando non vi sia un fondato motivo per supporla vera», e che a ben vedere è solo un ammorbidimento di quanto aveva già sostenuto William K. Clifford, secondo il quale «è sempre sbagliato, dovunque e per chiunque, credere a qualcosa in base a evidenze insufficienti». È un’impostazione, lo ammette lo stesso Pinker, controintuitiva, e che presa alla lettera può portarci a uno scetticismo radicale e a una totale inazione – ovvero all’esatto opposto della ricerca del progresso umano. Nemmeno le credenze mitologiche sono spesso credute letteralmente, però, fornendo un’ulteriore riprova di quanto la nostra specie ragioni costantemente sulla ragione stessa. Pinker fa proprio «il credo radicale del realismo universale: riteniamo che tutte le nostre credenze debbano rientrare nella mentalità della realtà», fondando tutte le nostre convinzioni sulle evidenze e sulla loro analisi accurata.

Però non basta, non può bastare. Il problema è che, ci piaccia o no, l’essere umano respinge spesso i fatti che non gradisce persino quando sono incontrovertibili, perché si scontrano con le sue opinioni e le sue identificazioni. Anziché essere scienziati intuitivi, siamo semmai avvocati intuitivi che litigano per avere “ragione”: non a caso i parlamenti sono pieni di avvocati (specialmente quello italiano, mi viene automatico aggiungere). È questa constatazione ad aver spinto Pinker a scrivere il libro: l’esigenza (razionale? intuitiva?) di condividere con un pubblico più ampio metodi e strumenti utilizzati in ambito accademico per individuare la razionalità di un’ipotesi. Obiettivo raggiunto? La cura Pinker può funzionare?

Fedele alle sue premesse il Nostro, che non ha alcuna velleità in campo medico, più che un nuovo e creativo sistema di pensiero ha realizzato una summa sontuosa. In cui ha mostrato una capacità veramente alta di divulgazione, per quanto era possibile: anche il mio non è che un misero riassunto delle parti più semplici. Minimizza forse un po’ troppo l’imprevedibilità: Nassim Nicholas Taleb è un po’ il grande assente di questo volume. Soprattutto, viviamo in un mondo in cui, per citare Francis Wheen, «il nuovo irrazionalismo è espressione della disperazione di persone che si sentono incapaci di migliorare la propria vita e sospettano di essere alla mercé di forze segrete e impersonali». Cresce il numero di chi lamenta che il potere è in mano a pochi, e nello stesso tempo propugna tesi strampalate accreditate da pochissimi. Si diffonde l’opinione che ogni tesi abbia lo stesso valore e che, quindi, l’opinione pubblica debba esserne posta a conoscenza nella stessa misura di quella degli esperti. Non sono dunque così persuaso che argomenti quali la logica, il ragionamento bayesiano, la teoria dei giochi, i rapporti di correlazione e causazione attireranno e convinceranno anche un solo hater – che di propria iniziativa non si avvicinerà probabilmente mai a un testo del genere. Mettendo in pratica i suoi stessi insegnamenti, direi che Pinker sovrastima le possibilità della ragione di far cambiare le idee alle persone, perlomeno direttamente.

Indirettamente, è invece un altro paio di maniche. Non tanto perché si può diventare apostoli e diffondere il verbo di Razionalità in ogni dove (Pinker non ha peraltro nemmeno elaborato un programma del genere). Ma si può – si deve – seguire le sue esortazioni e cominciare a far insegnare il pensiero critico a scuola. Si può apprendere a usare correttamente la ragione, e ad agire più circospetti quando ci si muove nella mentalità della mitologia, distinguendo l’attendibile dall’improbabile. Trovando magari modalità più calde di parlarne, togliendole quella sempiterna aria gelida.

Esistono senz’altro estremisti refrattari a qualunque sforzo. Ma esiste probabilmente anche una maggioranza di persone disponibile a giovarsi della razionalità, riducendo il numero complessivo di errori quotidianamente commessi sul pianeta – un obiettivo che non si dà nessuna istituzione, ma che potrebbe realizzarsi se i gruppi di pressione riusciranno convincenti (in effetti è proprio a questo che servono gli apostoli). Se tutti siamo stupidi su qualcosa e razionali su qualcos’altro, si tratta soltanto di spostare con maggior frequenza la lancetta nella seconda zona – tenendo sempre in mente che esistono parecchie persone intelligenti che non sono poi così razionali (e ovviamente viceversa).

A differenza degli altri animali, negli umani la razionalità si aggiunge ai sentimenti. L’insegnamento più importante di questo libro risiede a mio avviso nella valorizzazione di una specifica osservazione: agire razionalmente è la premessa indispensabile per avere una vita ancora più piacevolmente emozionante. Poiché la razionalità è «la stella polare» della nostra vita, e funziona, forse occorre soltanto concentrarsi su questo aspetto per farla diventare cool. In fondo, l’inguaribile ottimismo di Pinker ha portato a parlarne ovunque.

Raffaele Carcano

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