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Lavoro vs Università: il fattore guadagnare

G.C. ha venticinque anni, nella primavera del 2010 si è laureata con lode in architettura per la sostenibilità a Venenzia. Quando iniziò il percorso, cinque anni fa e più ormai, la sostenibilità pareva essere il ’settore del futuro’. Da un mese lavora in uno studio. Contratto mensile considerato come apprendistato a zero retribuzione. Inizia alle nove ed esce alle diciotto, quando non ci sono imprevisti. Ogni costo per il viaggio e il pranzo è a suo carico. E le altre offerte ricevute non erano migliori, per ora. Alcuni suoi amici, laureati come lei la primavera scorsa hanno accettato proposte all’estero.
 
E.M. ha due lauree, è due volte dottore, come dice lei. Ha studiato sia economia che giurisprudenza. Ha lavorato a tempo determinato in alcuni studi di commercialisti, prevalentemente nei periodi delle dichiarazioni o per sostituire una maternità. Ci sarebbe l’azienda di famiglia, E.M. non lo dimentica. Ma a lei quella piccola realtà di periferia va stretta. In fondo per rispondere al telefono, compilare documenti di qualità o registrare la contabilità di base, è sufficiente un diploma in ragioneria e svariati anni trascorsi fuori dall’università (magari lavorando tra le carte).
 
M.F. lavora in banca. Dopo il diploma come perito tecnico commerciale ha superato diversi colloqui. Iniziò quindici anni fa come cassiere semplice. Ora gestisce alcuni clienti in autonomia. Periodicamente la banca lo manda a corsi, aggiornamenti sugli investimenti e i nuovi prodotti per famiglie e imprese. Avrebbe voluto continuare a studiare, a vent’anni, ma si è trovato un impiego e lo ha conservato nonostante i quattro trasferimenti e le centinaia di chilometri affrontati ogni giorno. Qualche anno fa si è sposato, ha lasciato casa dei suoi genitori l’anno dopo il primo contratto a tempo determinato. Avrebbe fatto Lettere Moderne, se si fosse iscritto all’Università.
 
R.G. fa i turni in un’azienda biomedicale. Tute sterili e orari rigidi. Non si sgarra in catena, o si interrompe il ciclo produttivo. R.G. ha studiato scienza politiche due anni, poi i soldi sono finiti. Ha pensato che poteva interrompere per un po’, il tempo di sistemare alcune questioni familiari, accantonare quel tanto che gli sarebbe bastato a riprendere a studiare. A R.G. mancano cinque esami. Sono quattro anni che il libretto dell’università se ne sta congelato sulla sua scrivania. Quando la crisi sarà passata si licenzierà, gli capita ancora di dirlo, durante il turno di notte.
 
 
 
Tra esperienze dirette e indirette, ascoltando nel corso degli anni le storie di chi ha fatto scelte diverse, si arriva facilmente a considerare che attualmente (ma non di recente) una delle variabili che mette in contrapposizione ‘Lavoro’ e ‘Università’ è il fattore guadagnare.
 
Quando si trattò, nel mio singolo dunque irrilevante caso, di decidere dopo il diploma, il fattore guadagnare fu determinante.
Oggi, dopo tredici anni di lavoro a tempo pieno, mi ritrovo a inseguire un percorso inverso alla maggior parte dei giovani: affiancare al lavoro, lo studio. Affiancare, per l’appunto, perché il fattore guadagnare impone evidenti logiche tra economie familiari e altre conciliazioni.
 
Paradossalmente però, diversi diplomati che hanno intrapreso percorsi universitari si trovano oggi, o negli ultimi anni, a guardare con circospezione il c.d. ‘mondo del lavoro’, tra tirocini, contratti mensili non retribuiti, collaborazioni precarie incerte. Paradossalmente – scrivo – perché quando iniziarono a frequentare l’Università l’entusiasmo per i c.d. ‘sbocchi occupazionali’ era mediamente alto.
 
Ci sono facoltà che difficilmente conoscono il luccichio periodico dello slogan ‘uscendo da qui lavorerai subito’ (lavorerai retribuito, si sottintende) come giurisprudenza o lettere, ma ce ne sono altre di facoltà che più o meno ciclicamente sembrano far impennare le statistiche, medicina ne sa qualcosa anche se poi il fattore guadagnare scivolare tra numeri, indicatori e legislazioni mutevoli.
Nell’insieme però, sono anni che si avverte una gran fatica, tra i neo laureati, costretti spesso a proseguire con lauree di secondo livello, master o altri percorsi che, almeno sulla carta, tendono ad avvicinare al mondo del lavoro lo studente.
 
Ora, non si tratta di ragionare in termini assoluti o forzosamente generici. Specialmente di fronte alla situazione frammentata, differenziata e spezzata dall’attuale realtà italiana nel Sistema Istruzione.
Eppure, per chi viene dal mondo del lavoro, come me per l’appunto, e ha intenzione di continuare a lavorare, l’Università sembra una doppia sfida, una sorta di specchio che riflette un’immagine parzialmente deformata.
 
Si è tanto dibattuto (saltuariamente ancora lo si fa) tra media, salotti tv e dibattiti sulla figura del c.d.‘bamboccione’, il prototipo del giovane che resta in famiglia anche verso i trent’anni e oltre, tendenzialmente poggiato su una situazione di comodo economico e gestionale.
Eppure anch’io, che uscii di casa a ventitre anni, mi chiedo spesso come si può anche solo ipotizzare per un giovane di oggi una qualche forma di indipendenza economica minima quando studiare costa, terminati gli studi trovare un lavoro non è poi così facile come recitano le brochure delle facoltà, per non parlare dei mestieri che non richiedono prioritariamente una laurea dove tra contratti a tempo determinato, accordi senza busta, collaborazioni a retribuzione simbolica e altre logiche che fanno del precariato giovanile la realtà che è, oggi in Italia; in mezzo a tutto questo non è ben chiaro come il fattore guadagnare entri nell’equazione.
Ecco spiegata l’ansia, l’incomprensione, per chi invece dal mondo del lavoro tende una mano a quello dell’Università. Per chi ancora guarda all’istruzione come a qualcosa da non lasciarsi scivolare addosso, non sempre almeno.
Non che si finisca mai, di studiare, lo cantilenavano quelli che oggi sono bis o tris nonni.
 
Anche del ‘gap’ tra Istruzione e Lavoro, si è dibattuto molto. Ancora lo si fa, in un’Italia che vive un periodo difficile (troppo) per l’insegnamento quanto per l’umana esigenza di tanti lavoratori assuefatti da un sistema che non trova garanzie, né soluzioni per chi lavora formando le menti dei futuri lavoratori. Molte le carenze, tra i programmi quanto le gestioni di persone, professionalità, graduatorie, e in-certezze (carenze di tale gravità che suggerisco letture e approfondimenti di chi sta testimoniando direttamente, senza filosofeggiamenti di comodo o analisi preconfezionate).
 
Possiamo promettere ai giovani di oggi e domani, mestieri in grado di fornire quella mutevole stabilità entro il fattore guadagnare, se chi dovrebbe occuparsi della loro crescita intellettuale (la loro formazione a diversi livelli di apprendimento e istruzione) non ha alcuna, o quasi, garanzia di un posto se non proprio ‘fisso’ quanto meno coerente entro un percorso professionale unitario?
 
E possiamo suggerire ai giovani di oggi e domani di ‘investire’ sulla loro istruzione, perfezionando conoscenze, cercando qualifiche, lavorando per apprendere, espandere confini di corpo e mente, se tutto è dominato da un fattore guadagnare che nell’Università non sembra trovare ragionevoli compromessi?
 
Forse è il Diritto all’Istruzione per tutti, che andrebbe rivisto.
 
In entrambi i ‘sensi di marcia’.
 
E non solo in termini immediati, quanto – soprattutto – nel medio-lungo periodo quando la società di oggi guarderà a quella di domani in divenire e ne ritroverà tracce dei diversi percorsi di formazione intellettuale, quanto tecnica e pratica verso professioni e mestieri.
Quando chi istruisce - proviamo a immaginare oggi - non è oggetto ma strumento, e ciò che fa è considerata attività lavorativa al pari di ogni altra.
Infine (sempre immaginando), quando per seguire un proprio percorso di formazione e apprendimento, la morsa del fattore guadagnare verrà allentata da strumenti forniti dal Sistema Istruzione stesso che riconosce nello studente l’investimento per un futuro professionale e non l’incognita che poi, chissà quando lavorerà, chissà quando riuscirà a inserirsi nel ’mondo del lavoro’.
 
 
 
Ulteriori riflessioni ed interventi vari sul precariato scolatistico e non solo: PrecarieMenti.

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