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La violenza del capitale

Negli ultimi tempi, sui principali media ufficiali si paventa con insistenza un’ipotesi di default (cioè fallimento) della Grecia, a cui potrebbe far seguito un allarmante effetto domino che rischierebbe di travolgere drammaticamente altri Paesi che fanno capo all’euro, tra cui l’Italia e la Spagna sembrerebbero i più esposti al contagio della crisi.

Negli ultimi tempi, sui principali media ufficiali si paventa con insistenza un’ipotesi di default (cioè fallimento) della Grecia, a cui potrebbe far seguito un allarmante effetto domino che rischierebbe di travolgere drammaticamente altri Paesi che fanno capo all’euro, tra cui l’Italia e la Spagna sembrerebbero i più esposti al contagio della crisi.

In questo periodo sembra che gli Italiani siano diventati esperti nel campo dell’economia politica e non è un caso se Il Sole 24 ore sia uno dei quotidiani più letti e venduti nel nostro Paese. Vocaboli quali “spread” e simili, propri della scienza economica, un tempo ignoti alla massa e appannaggio esclusivo di tecnici e specialisti, sono entrati a far parte del lessico quotidiano che la gente comune adopera incontrandosi al bar o in ufficio.

Ma proviamo a chiarire alcune questioni essenziali della crisi, che è indubbiamente di matrice sistemica. In tal senso, per mettere ordine tra le troppe informazioni, sovente confuse, distorte o manipolate, che ci propinano ogni giorno i mass-media a proposito della situazione economica, ben venga a soccorrerci il vecchio barbuto ebreo di Treviri.

Ormai persino i santoni di Wall Street, padroni assoluti della finanza globale che sta strozzando i popoli europei, studiano le teorie di Marx per spiegare le dinamiche capitalistiche, analisi confermate dalla storia, per cui se ne avvalgono come un valido strumento di comprensione e, dunque, di potere.

Non per interpretare e trasformare il mondo come suggeriva il grande pensatore di Treviri, bensì per modificarlo in peggio, per speculare più liberamente, rovinare milioni di piccoli risparmiatori e soffocare le energie vive del lavoro, per esercitare un controllo assoluto sulle masse e dirigere verticisticamente i processi della finanza e dell’economia mondiale senza più il filtro costituito dalla sovranità degli Stati nazionali e dei Parlamenti eletti democraticamente.

I guru del capitalismo finanziario hanno preso atto che una delle tendenze storiche esaminate dal vecchio barbuto comunista, riguarda le crisi che investono periodicamente l’economia capitalista e nascono dalle contraddizioni insite nella natura stessa dell’economia di mercato. In breve, un’economia di mercato senza mercato, priva cioè di una domanda, o perché l’offerta di merci supera la domanda in virtù di ricorrenti fenomeni di sovrapproduzione, è una contraddizione terminologica, per cui rischia di sprofondare in una crisi insanabile. Come accade nell’attuale situazione economica mondiale, in cui si assiste al crollo degli investimenti e dei salari, e alla caduta verticale del saggio di profitto, che acuisce la crisi provocando un circolo vizioso non superabile.

E’ innegabile che i profitti si sono spostati dal settore della produzione a quello della speculazione e si determinano attraverso bolle speculative internazionali che rovinano l’economia di interi continenti. Tale fenomeno è detto finanziarizzazione del capitale.

La logica cinica dei padroni del capitale si può riassumere nel seguente schema di ragionamento: sono disponibili miliardi di lavoratori cinesi, indiani, ecc., che producono merci a basso costo, favorendo profitti abnormi grazie a salari miserabili, per cui chi se ne frega degli operai occidentali licenziati brutalmente. Questi guru del capitalismo globale saranno pure attenti studiosi di Marx, ma non sono certo bolscevichi, anzi. Non a caso, interpretano le teorie di Marx ignorando deliberatamente la dialettica rivoluzionaria, cioè il concetto di lotta di classe, benché siano gli unici ad applicare una spietata guerra planetaria contro i lavoratori. Si pensi alla terzomondizzazione selvaggia del mercato del lavoro globale, alla violenta pauperizzazione dei produttori, per comprendere la strategia predatoria esercitata dalle oligarchie finanziarie dominanti.

Dalle crisi il capitalismo è uscito grazie a nuovi cicli di accumulazione violenta. Tradotto in spiccioli, i cicli espansivi hanno comportato feroci guerre di rapina e distruzione a scapito di vari popoli, campagne coloniali tese alla conquista e allo sfruttamento di mercati “vergini” per accumulare profitti. Tali processi di espropriazione cruenta e di intenso sfruttamento a danno dei produttori su scala globale, hanno accelerato l’esaurimento delle risorse presenti nel mondo, accentuando un’espansione consumistica irrazionale che determina la saturazione definitiva dei mercati globali. Oggi il capitalismo predatorio punta ad estorcere i beni pubblici degli Stati nazionali. Dopo aver rapinato e dissanguato i popoli del Terzo mondo, gli usurai della finanza mondiale mirano ad espropriare il reddito dei lavoratori e dei ceti medi nei Paesi “opulenti”.

Ebbene, finché il capitalismo è riuscito a garantire un pur relativo benessere alle popolazioni dei Paesi più industrializzati, è stato in grado di funzionare e reggere agli urti violenti prodotti dalle recessioni e dalle rivolte sociali. Ma oggi non è più così.

Veniamo, dunque, alle manifestazioni promosse nel mondo dagli Indignati. A Roma, il 15 ottobre scorso, si è visto un copione trito e ritrito: è la strategia della tensione” e vi ricorre ancora una volta chi teme e tenta di criminalizzare le proteste e le rivendicazioni popolari. Il trucco non funziona più e non servirà ad arrestare l’azione spontanea delle masse e le istanze di protagonismo e di partecipazione politica provenienti dal basso.

Sul piano storico e politico le violenze di piazza servono solo a chi ha interesse a tacitare le ragioni che guidano le manifestazioni e le iniziative di un movimento spontaneo, in questo caso le istanze anti-capitaliste e l’indignazione contro la violenza istituzionalizzata insita nella crisi e nel sistema che l’ha generata. Non è un caso se personaggi come Di Pietro e il ministro Maroni cavalchino l’onda emotiva e il clima d’allarme che si è creato dopo il 15 ottobre, per invocare con forza il ripristino della legge Reale, che risale al 1975, una legislazione varata nel pieno degli “anni di piombo”.

Rispolverare una legge che prevedeva, tra l’altro, il fermo di polizia preventivo ed altre misure repressive eccezionali adottate in un’ottica oltranzista ed antidemocratica, come se dovessimo fronteggiare una pericolosa emergenza terroristica, significa alimentare spinte eversive e reazionarie che coincidono esattamente con quanti, pure a sinistra, si affannano a scongiurare ed esorcizzare lo spettro dello spontaneismo politico di massa.

Dopo aver ascoltato l’ennesima intercettazione telefonica in cui il “premier a tempo perso” viene beccato a conversare con il faccendiere Valter Lavitola, stretto da legami ambigui con la massoneria del Grande Oriente Democratico, accennando ad una “rivoluzione”, vale a dire un’azione eversiva di stampo golpista, è lecito chiedersi chi siano i veri sovversivi”, i “cattivi maestri che traviano le nuove generazioni. Quando gli esempi provenienti dall’alto non sono esattamente educativi o edificanti sul piano dell’etica pubblica, come si può pretendere una condotta civile e corretta da parte dei giovani, oltretutto esasperati da condizioni e prospettive di vita affatto incoraggianti?

L’istanza più radicale contenuta nella piattaforma degli Indignati è la richiesta di una maggiore trasparenza democratica e di un’effettiva partecipazione politica dal basso, l’esigenza di un controllo e di un intervento più diretto delle masse popolari nei canali decisionali, un’idea che si concretizza nelle forme auto-organizzate dell’assemblea pubblica, aperta al contributo di tutti coloro che ne condividono lo spirito collegiale.

Le imponenti manifestazioni di piazza promosse ovunque, sono state assolutamente pacifiche e vivibili, con proteste indignate e fermenti di rabbia fisiologica, ma nel complesso sono state intelligenti e civili, tranne quella di Roma, che pure ha registrato un’elevata partecipazione numerica, ma si è distinta in termini oltremodo negativi. I motivi sono per certi versi riconducibili ad un quadro di specificità storiche nazionali, a situazioni di degrado ed imbarbarimento antropologico, a sottoculture urbane di tipo marginale e particolaristico, nell’accezione pasoliniana del termine. Non si possono banalizzare simili fatti come semplici fenomeni di teppismo. Tuttavia, un personaggio grottesco e pittoresco come “er Pelliccia” sembra uscito proprio dalla penna di Pasolini.

In ogni caso, lo spettacolo fornito dalla piazza, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone anche in Italia, è stato infinitamente migliore dell’indegno “mercato delle vacche” messo in scena nelle aule parlamentari. La reale democrazia sorta dal basso, probabilmente ancora ingenua ed immatura, tuttavia autentica, è indiscutibilmente superiore alla falsa democrazia che alberga nei Palazzi istituzionali, all’oscena e disgustosa compravendita di voti a cui si è assistito in occasione dell’ennesima fiducia parlamentare che ha consegnato ai posteri un altro squallido esempio di “antipolitica”.

Bando ad ogni facile e comoda ipocrisia da benpensanti. Chi sta in alto ed ogni giorno semina violenza, stupidità e maleducazione, non può raccogliere altro che i frutti marci di questo malcostume e questa inciviltà. Nulla accade per caso, tantomeno gli avvenimenti umani. Non è un caso se il 15 ottobre scorso, in Italia abbiamo assistito alla dimostrazione di una violenza inutile e balorda. Tali accadimenti, apparentemente insensati e primitivi, esigono un’analisi più complessa ed approfondita, capace di fornire una spiegazione articolata che è di ordine politico e sociale, antropologico e culturale.

Così come la crisi economica italiana mostra una serie di peculiarità proprie, riconducibili ad esempio alle percentuali record di evasione fiscale, nonché alla corruzione dilagante ad ogni livello, a cominciare dalle alte sfere istituzionali e all’insieme di quella che (ironicamente) si potrebbe definire la “classe digerente” del Paese, parimenti la crisi morale e culturale della società italiana è legata al degrado del sistema scolastico nazionale, ma anche alla rozzezza e all’imbarbarimento di chi detiene le redini del comando, e non mi riferisco semplicemente agli organi di governo, bensì alle forze economiche e sociali in grado di formare e condizionare l’opinione pubblica.

E’ ingenuo e commovente chi si stupisce nell’apprendere che autorevoli esponenti del Gotha del capitalismo bancario e finanziario mondiale, quali George Soros e Mario Draghi, vice-presidente della Goldman Sachs e prossimo governatore della BCE, presi di mira dagli Indignati, hanno dichiarato di comprendere le ragioni dei giovani. A questo punto una domanda sorge spontanea: per caso, tali personaggi si rivolgono e si indignano contro se stessi? E’ palese l’intento di cavalcare il movimento in un’ottica anti-politica.

Una delle peculiarità più originali del nuovo movimento è l’innata vocazione alla globalizzazione delle lotte e delle rivendicazioni, nonché l’assenza di leadership personale, per cui esso si configura come un soggetto politico orizzontale. Il fenomeno degli Indignati si distingue nettamente dai movimenti precedenti, inclusi i no-global, in cui emersero figure di sedicenti capetti, diventati poi parlamentari o aspiranti tali.

Chi ha vissuto molte esperienze e non è più incline a facili entusiasmi, non può non seguire con interesse e con occhio vigile e critico una corrente globale che non è solo di indignazione e protesta anticapitalista, nella misura in cui si adopera in modo attivo e cosciente per elaborare soluzioni concrete per uscire dalla grave crisi che attanaglia il sistema capitalista, propugnando un’alternativa seria e credibile, oltre che necessaria.


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