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La puntata di Report di domenica 25 ottobre: la nuova rivoluzione industriale

"Come è sempre successo nei secoli, quando tutte le innovazioni convergeranno, si ridisegnerà tutto. Si chiama rivoluzione industriale 4.0." 
 

Immaginarsi come sarà il futuro non è cosa facile: che tipo di lavori rimarranno tra 10-20 anni? Quali nuovi settori industriali avranno un boom e quali invece verranno spazzati via dalle innovazioni e dalle scoperte?

Riusciremo a non perdere questo ennesimo treno, per agganciare l'Italia al progresso e rivedere nuovamente un minimo di crescita industriale?

Se chiedi come sarà un futuro ad un politico (di quelli oggi seduti in Parlamento) o ad un economista (tipo quelli che non azzeccano mai una previsione, ma sono sempre allo stesso posto, pronti a dare consigli a tutti), il futuro che immaginano è pari pari al presente.

Una visione tendenzialmente conservatrice, se non ostile a tutto ciò che di nuovo si affaccia dal di fuori.

Al di fuori c'è un mondo di nuove scoperte tecnologiche destinate, che lo vogliamo o no, a cambiare il nostro modo di vivere, il mondo del lavoro, la produzione. E dunque anche le nostre vite.

Ce lo racconta Michele Buono nel servizio di Report di questa sera: camion che si guidano sa solo, basta impostare il percorso, lasciando l'autista libero di pianificare meglio il suo lavoro, consentendogli di riposare.

Articoli di giornale, su episodi di cronaca, scritti da computer (e difficili da distinguere da articoli scritti da umani). Toglieranno lavoro ai giornalisti in carne ed ossa o forse consentiranno ai giornalisti veri di fare approfondimenti, di dedicarsi a storie più interessanti, più articolare, che un computer non è in grado di gestire?

"Autisti, giornalisti, impiegati, medici, che fine faranno nella rivoluzione industriale 4.0?"

Forse non chiameremo più come autista la persona seduta in cabina nei nuovi camion o giornalista colui che in redazione racconta storie (e non riporta pari pari la dichiarazione dell'onorevole).

Ma un mondo sta cambiando: una sorta di nuova rivoluzione industriale l'aveva definita Stefano Feltri nel suo bel saggio "La politica non serve a niente".

Già, la politica.

Potrà starsene ad osservare silente, tenendosi fuori. O, peggio ancora, difendendo gli inutili e dannosi privilegi delle lobby (i tassisti contro Uber, i trasportatori, i grossi studi di architetti contro Cocontest). Oppure potrà iniziare ad osservare quello che sta arrivando ora, per cercare di controllare e indirizzare il cambiamento. Per evitare che i benefici di queste nuove tecnologie ricadano solo sulle spalle di pochi.

Si perderanno molti posti di lavoro, l'obiezione (corretta) che viene fatta. Ma altri ne nasceranno e saranno posti che richiederanno competenze, studi, dinamicità, creatività. Tutte cose che noi uomini sappiamo fare e le macchine no. 


Associated press ha adottato il robot giornalista ma non ha licenziato nessuno: ora i giornalisti hanno più tempo per fare inchieste e scrivere in modo creativo. Sono loro i primi sostenitori della nuova tecnologia, che li ha liberati da un lavoro ripetitivo e noioso.
 

Nel nuovo mondo industriale, si produrrà in base alla domanda, niente scorte né magazzini pieni. Non ci sarà più la grande azienda con gli operai in catena di montaggio, come ai tempi del Lulù di Elio Petri. 
Un esempio è la Sacmi: si occupa di produzione di macchinari per il packaging, la ceramica e l'industria alimentare, ha 4000 dipendenti nel mondo, pochi però sono sulla linea di produzione: una buona parte scrive il software per programmare le macchine.
Macchine che eseguono compiti che prima erano fatti da umani, l'uomo deve solo monitorarle e programmarle.
Si può produrre tutto quello che il cliente desidera, così un centro di lavoro può essere convertito per costruire nuovi prodotti senza costi aggiuntivi. 
 

Bisogna essere pronti ad investire nei settori e nelle idee giuste e smetterla di vedere il futuro come una perenne continuazione del passato. Dalle auto a benzina ai rubinetti che possono essere copiati in tutto il mondo.

Rivoluzione 4.0 di Michele Buono

Industria 4.0 è la quarta rivoluzione industriale, quella dell’interconnessione e dei sistemi intelligenti: la fabbrica che fa dialogare i macchinari, gli uomini, e i prodotti. Sistemi di fabbriche collegate in rete che creano un unico processo produttivo. Si razionalizza così la produzione. Si può personalizzare un prodotto, produrre in modo flessibile seguendo la domanda, senza più eccessi, magazzini pieni e invenduto: cioè l’anticamera della crisi. Si sa che la crescita, i cambiamenti globali, hanno sempre ruotato intorno alle grandi innovazioni, e spaventano. In questo momento siamo ancora sull’onda lunga delle innovazioni dei secoli precedenti, di più non si può crescere, inseguiamo solo lo zero virgola. Cambiando radicalmente sistema sì. Nel momento in cui sarà possibile la convergenza completa di tutte le innovazioni contemporanee in una nuova rivoluzione industriale, dall’intelligenza artificiale all’internet delle cose, il cambiamento sarà totale. Piano, piano, come già è successo nei secoli passati, si ridisegnerà tutto: dai centri di produzione all’organizzazione sociale. Il paradosso della nostra epoca è un eccesso di liquidità nel mondo che non trova sbocchi per investimenti produttivi: i soldi non mancano eppure si parla di crisi. Proviamo ad immaginare l’effetto di dare una prospettiva solida di un progetto economico agli investitori. In Italia se ne parla, Germania e Stati Uniti ci hanno già pensato e stanno facendo.

 

Il secondo servizio parlerà ancora di economia e industria, osservando la "normalizzazione" del gigante cinese, dopo il crollo delle borse.

Una situazione che ha messo in crisi le borse ma che ci si doveva attendere: anche questo è un treno che non possiamo attendere, l'export verso la Cina dove una nuova classe media è pronta a spendere per il nostro (vero) made in Italy.

The new normal di Giuliano Marrucci

Con cadute del 6% al giorno, quest'estate le borse di Shanghai e Shenzhen hanno tenuto per settimane l'economia globale col fiato sospeso. E' la fine del miracolo cinese, fatto da 20 milioni di contadini che per 30 anni si sono trasferiti dalle campagne alle città e hanno permesso all'economia di crescere al ritmo del 10% l'anno. Una fine preannunciata. Si chiama “new normal”, e significa meno crescita, meno industria, meno esportazioni, da una parte, dall’altra anche più servizi, più consumi interni, e il consolidamento di una classe media urbana che rappresenta un mercato di sbocco gigantesco per i nostri prodotti. Un'occasione che rischiamo di perdere perché le nostre aziende, rispetto a quelle straniere, non sanno fare sistema. Non riusciamo neppure a sfondare sul cibo, settore nel quale su 35 miliardi di export vendiamo in Cina per meno di 350 milioni, l'1%. Meno della metà di quanto fattura la Francia soltanto con il vino.

 

L'anticipazione su Reportime.

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