La politica dell’abaya. Attacco all’islam o attacco alla laicità?
Le controversie in Francia sull’abbigliamento religioso a scuola rivelano la complessità delle questioni legate alla laicità e all’identità culturale. Raffaele Carcano affronta il tema sul numero 5/2023 di Nessun Dogma.
In Francia, avanti di questo passo, le polemiche sull’abbigliamento religioso diventeranno più tradizionali delle baguette sotto il braccio. Ma, se accadrà, accadrà anche per le polemiche contro la Francia: provenienti non soltanto dagli Stati a maggioranza islamica, ma anche da quelli che non amano la laicità alla francese.
Con gli anglosassoni in prima fila, naturalmente: uno di essi, l’antropologo John Bowen, ha scritto addirittura un libro dal titolo Why the French Don’t Like Headscarves (Perché i francesi non amano i veli). Ma cosa sia oggi la laicità alla francese non è più chiaro nemmeno agli stessi francesi – che amino o no l’uso del velo.
Tutto cominciò alla fine degli anni ottanta, quando tre studentesse furono espulse da un liceo di Creil perché volevano indossare l’hijab. L’allora ministro dell’istruzione (e in seguito anche primo ministro), il socialista Lionel Jospin, se ne lavò sostanzialmente le mani: ritenendo che il velo in classe «non è di per sé incompatibile con il principio di laicità», se non è accompagnato dal proselitismo, rimise ogni decisione alla valutazione dei presidi.
Risultato: una costante moltiplicazione dei casi e uno stato di tensione permanente negli ambienti formativi. Per cercare di porvi fine, nel 2003 il presidente gollista Chirac creò una commissione ad hoc, composta anche da esponenti delle religioni.
La commissione propose di introdurre il divieto di indossare a scuola (ma non all’università) qualunque segno «ostensibile», ovvero ben visibile nel suo significato, come il velo, la kippah, un crocifisso poco discreto.
La proposta diventò legge nel 2004. Nel 2010 le si aggiunse l’interdizione di ogni «occultamento del viso» negli spazi pubblici – compreso quindi il velo integrale. Nell’estate del 2016 ci furono poi le controversie per i burkini sulle spiagge, che furono infine autorizzati dal Consiglio di stato.
L’ultimo caso era stato quello delle Hijabeuses, un collettivo di giovani calciatrici musulmane che ha rivendicato il diritto di giocare a capo coperto: il 23 giugno scorso il Consiglio di stato ha legittimato il divieto. Tempo due mesi, ed è già venuto il turno dell’abaya.
Trattasi di un abito, molto lungo molto largo molto coprente, tradizionalmente indossato nei Paesi della penisola araba – tanto che fu reso obbligatorio dalla monarchia saudita fino al 2018. Negli altri Paesi a maggioranza islamica si è però diffuso soltanto in tempi recenti, senza essere usato per andare a scuola. In occidente, e soprattutto in Francia, la situazione è diversa.
Oggi viene infatti venduto nei negozi che commerciano articoli religiosi e il suo uso è promosso da numerose realtà musulmane, tanto che è ormai il dress code obbligatorio in quelle islamiste. La strategia degli integralisti è abbastanza semplice: far passare il concetto che solo la donna che indossa il velo (e lo fa indossare alle sue figlie anche quando sono bambine) è una buona musulmana.
Aiuta a identificare e controllare i “Noi”, ma anche a mostrare ai “Loro” che i “Noi” aumentano di numero. Laddove, come in Francia, è stato vietato il velo nelle scuole, l’abaya è diventato rapidamente il mezzo per aggirare il divieto. Le studentesse entrano negli istituti in abaya togliendosi il velo, che rimettono non appena terminate le lezioni.
La modest fashion colpevolizza platealmente le donne: l’assunto è che sono loro a doversi coprire, non sono i maschi che non le devono molestare. Tuttavia, grazie all’enorme quantità di petrodollari pompata dagli Stati arabi, sta già cominciando a influenzare anche i marchi di moda più conosciuti.
I militanti islamisti sfruttano il trend e denunciano come sia permesso entrare a scuola in abiti succinti, dando così a intendere che sono loro a difendere la sicurezza delle ragazze, non la République. Peccato che indossare quegli stessi abiti succinti nelle banlieues può rivelarsi pericolosissimo, perché la morale che ormai vi impera non è certo particolarmente attenta ai diritti delle donne.
Il velo è oggi la principale istanza di ogni movimento islamico integralista. Lo è da quando scoppiò la rivoluzione iraniana, e l’ayatollah Khomeini (rientrato in patria dopo essere stato in esilio proprio in Francia) impose l’obbligo di coprirsi il capo. Quasi mezzo secolo dopo, l’islamismo è diventato transnazionale e prospera sull’incessante amplificazione mediatica di ogni discriminazione subita in occidente: vera, presunta o creata ad arte che sia.
È una strategia che funziona anche a livello culturale: persino agli occhi degli occidentali, ormai, «la musulmana è una donna che porta il velo». Funziona pure negli ambienti accademici: l’islamo-gauchisme è sempre più diffuso, e mette nel mirino chi “osa” sollevare critiche (come per esempio è capitato, nel 2023, all’antropologa Florence Bergeaud-Blackler, che ha scritto un libro sui Fratelli musulmani).
E funziona quindi ancor di più a livello politico: quest’estate il rapper musulmano Médine, tristemente noto per una canzone in cui suggerisce di «crocifiggere i laicisti», è stato invitato all’università estiva dei Verdi e ha avuto l’onore di una conferenza-duetto con la segretaria nazionale Marine Tondelier (anche se con qualche palese imbarazzo, vista una sua recente sparata antisemita).
L’alleanza con gli islamisti sembra ormai letteralmente organica nel caso della France Insoumise, un partito di sinistra populista: anni fa il suo leader Jean-Luc Mélenchon sosteneva la messa al bando delle studentesse che arrivavano a scuola «abbigliate come afghane», oggi invece accusa il governo di dispotismo.
Certo, è curioso che sia proprio un sovranista ad avallare il modello anglosassone. Del resto, tutto il mondo è paese: nei giorni nostri, a prescindere dalla collocazione, la politica consiste soprattutto nel soddisfare nicchie sociali e vere e proprie lobby, cercando nello stesso tempo di non scontentare i propri elettori consolidati.
Non sempre i risultati sono però quelli desiderati. Mélenchon arrivò terzo alle presidenziali 2022, ma nei sondaggi il suo partito è ora ritenuto meno credibile e competente, più radicale, violento e pericoloso di quello di Marine Le Pen. Capita, quando ci si sottomette all’agenda di fanatici non particolarmente apprezzati dagli elettori.
Tuttavia, nemmeno Macron si è sempre rivelato impeccabile, nei suoi rapporti con l’islam. Soprattutto quello che nuota nell’oro. Il presidente è stato presente alla fase finale dei mondiali di calcio in Qatar senza sollevare critiche, e ha accolto con ogni onore all’Eliseo l’autocrate saudita Mohammed bin Salman. Sono atteggiamenti che indeboliscono alla radice il recentissimo attacco governativo all’abaya. Sostituito il tentennante Pap Ndiaye, è stato nominato ministro dell’istruzione il rampante Gabriel Attal.
Che pochi giorni dopo, nell’imminenza della riapertura scolastica, ha annunciato in un’intervista televisiva che avrebbe decretato il divieto di indossare a scuola l’abaya e il qamis (il suo corrispettivo maschile): ovviamente in nome della laicità, perché «non bisogna poter determinare la religione di uno studente entrando in una classe».
Ha ricordato che lo scorso anno scolastico ci sono stati oltre 4.700 casi in cui gli studenti hanno violato il divieto di esibire segni religiosi, ed era quindi tempo di dire basta. Detto, fatto.
Il Consiglio francese del culto musulmano ha immediatamente sostenuto che l’abaya non è un simbolo religioso musulmano ma un vestito tradizionale nei Paesi di origine – anche se pochissime famiglie sono migrate in Francia dalla penisola araba, e anche se l’abito è indossato in Francia soltanto da musulmane.
Con la stessa motivazione un’organizzazione islamica ha presentato al Consiglio di stato un ricorso, che è stato respinto. Non sorprendentemente, i Verdi e la France Insoumise hanno contestato l’interdizione. Gli altri partiti si sono espressi a favore, compresa la sinistra storica dei comunisti e dei socialisti (tra cui Jospin, che ha fatto retromarcia).
Un sondaggio realizzato a tamburo battente per conto del Charlie Hebdo ha mostrato un sostegno al ministro nell’ordine dell’81% della popolazione (una maggioranza analoga a quella riscontrata lo scorso anno da un sondaggio all’interno del corpo docente, tuttora scosso dalla decapitazione di Samuel Paty, tre anni fa).
Il sì al divieto è maggioritario anche tra le donne che si definiscono “femministe” e persino tra gli elettori dei partiti contrari, essendo appoggiato dal 79% dei Verdi e dal 58% di quelli della France Insoumise. Il carattere religioso dell’indumento è ritenuto innegabile da sette transalpini su dieci. Alla fine, dunque, sono soltanto i musulmani a opporsi, con una percentuale del 66%. Ed è comunque significativo che anche un terzo di essi sia invece a favore.
Il primo giorno di scuola 298 ragazze (su circa sei milioni in totale) si sono presentate con l’abaya e 67 di esse sono tornate a casa dopo essersi rifiutate di toglierla. A Clermont Ferrand un preside è stato minacciato di morte dal padre di una studentessa.
Sui social network la campagna contro la Francia, la sua “polizia del velo” e il suo presunto razzismo è stata molto veemente, anche per l’impulso datole dalla Fratellanza musulmana o da Stati come la Turchia. Alla fine è intervenuto anche Macron dichiarandosi favorevole a una mise unica, sostenendo che jeans, t-shirt e giacca siano più accettabili da parte degli studenti di un’uniforme uguale per tutti (che è invece la proposta di Marine Le Pen).
Intende però raggiungere l’obiettivo attraverso «sperimentazioni»: tanto per far girare intorno a questo tema la vita francese ancora per diversi anni. Ma non è che in altri contesti, negli stessi momenti, i rapporti con l’islam siano stati rosei quanto un film come Barbie.
Mentre dall’Inghilterra giungeva il video di un sermone dell’imam di Birmingham che spiegava come lapidare una donna, in Italia impazzava la decisione della sindaca leghista di Monfalcone di vietare il bagno vestiti «per rispetto del pubblico decoro»; in risposta si è tenuta una manifestazione di protesta in cui, per solidarietà, alcuni cittadini non musulmani sono anch’essi entrati in acqua vestiti.
Il tema è dunque universale, come universale è la tendenza a polarizzare. I salafisti non agiscono diversamente da un Pillon o da un Adinolfi: si dichiarano minoranze discriminate, ma fanno riferimento a poteri autoritari dalle ramificazioni internazionali.
Partiamo allora dal presupposto che di paletti ce ne sono sempre stati (soprattutto nelle scuole religiose). Non è possibile andare a scuola nudi, per esempio, e una libertà assoluta dovrebbe dunque comprendere anche i naturisti: nelle piscine di Grenoble sono stati autorizzati sia il burkini che il topless, generando tuttavia parecchio sconcerto.
Per contro, una libertà parziale deve essere giustificata. Nei fatti, la posizione del governo francese è basata sull’ordine pubblico: se tutti gli studenti esponessero le loro convinzioni e le propagandassero apertamente, sarebbe un continuo Far West – specialmente in certi quartieri. Immaginate una classe con un lepenista, un’ebrea e un’islamista: già i docenti fanno fatica a gestire i conflitti e a spiegarli agli alunni, figuriamoci su una questione del genere, con le famiglie a soffiare sul fuoco.
Anziché ammettere onestamente i termini del problema, però, i vertici francesi preferiscono dire che le loro scelte si basano sul principio di laicità. Al punto che entrambi i fronti che si contrappongono in Francia si rifanno a essa: gli oppositori del divieto a quella jospiniana del periodo 1989-2004, i sostenitori a quella post 2004.
Così facendo, agli occhi di una giovane e convinta musulmana la laicità sembrerà una mera scusa, una parola talmente vuota che può essere usata per tutto e il contrario di tutto – nel caso peggiore, per pretendere di decidere per lei (che si sente emancipata così) e di vietare i suoi (e soltanto i suoi) vestiti.
Una discriminazione imposta senza spiegazioni, come si impongono le tasse: «lo pretende la laicità» ha lo stesso effetto persuasivo che dieci anni fa ha avuto in Italia il martellante «lo pretende l’Europa». Senza dimenticare che la discriminazione è un obiettivo nemmeno troppo camuffato dell’estrema destra francese. Purtroppo, la comunicazione politica francese sembra spesso più figlia della ghigliottina giacobina che della pedagogia illuminista.
E tuttavia non si può nemmeno continuare a far finta di niente. Tutti devono vestirsi come vogliono, ma nessuno deve vestirsi come vuole qualcun altro, come accade in Iran (e la rivolta in corso mostra quanto diffusa sia l’opposizione alla costrizione).
Insegnare il pensiero critico a scuola è la strada più promettente per creare cittadini che pensano con la propria testa, ma non sembra che i governi, qualunque sia il Paese e qualunque sia il colore politico, siano granché interessati a farlo.
Non si dovrebbero nemmeno finanziare le campagne istituzionali “inclusive” che incensano l’uso del velo. Né si deve aver paura di intervenire contro chi impone con la forza alle Hina e alle Saman francesi un vestito che non vogliono indossare. Piaccia o no leggerlo, quello che fanno diversi musulmani alle loro figlie e alle loro mogli è criminale quanto il pizzo estorto ai negozianti.
La presunzione di libertà di scelta e l’impossibilità di accertarla puntualmente non possono nascondere il fatto che spesso non esiste proprio, e a ben vedere sono più numerose le giovani di famiglia musulmana che riportano coraggiosamente le vessazioni familiari dei negozianti che denunciano il racket.
E allora è necessario punire chi lo chiede, e ancor di più evitare ogni compromesso con chi esalta comportamenti liberticidi. Accettare la logica del fatto compiuto significa perseverare con l’approccio sbagliato.
In un mondo ideale, ogni studente sarebbe libero di indossare qualunque legittimo simbolo di appartenenza, anche (e soprattutto) politica. Siamo tutti consci di non vivere in un mondo ideale, ed è per questo che ci dividiamo sulle soluzioni. Purtroppo, però, si continua a prestare maggior attenzione ai diktat di qualche leader religioso anziché ai desideri inesprimibili di tante ragazze. E non è una bella prospettiva, per il futuro dell’umanità.
Raffaele Carcano
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