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La percezione della giustizia mediatica

Ciò che è accaduto attorno alla vicenda di Sarah Scazzi ha in un qualche modo aperto una botola, non sconosciuta, semplicemente meno inquadrata, con una messa a fuoco meno nitida. In particolare prima dell’arresto di Misseri poi della figlia Sabrina, zio e cugina di Sarah, prima che si delineassero ipotesi concrete di ‘colpevolezza presunta’: la medialità è stata invocata, reclamata, quasi imposta dagli stessi protagonisti.
 
Ma la storia di Sarah è una delle tante.
Per chi ha la televisione accesa tra mattina, pomeriggio e notte, spesso due delle tre reti dello stesso gruppo propongono programmi con contenitori di approfondimento tra la cronaca, e la c.d. ‘vita vera’.
Ogni giorno persone qualunque, cittadini di ogni età, provenienza e contesto, si siedono davanti alle telecamere e raccontano, i volti segnati inquadrati da vicino.
 
Mi sono chiesta spesso se mai potrei, a poca distanza da un fatto grave, magari luttuoso, improvviso e inaspettato, dopo una tragedia insomma (a poca distanza perché ormai è questo l’iter espositivo, di un neonato morto il 24 dicembre 2010 per il decorso di una rara malattia mal diagnostica se ne dice in un salotto tv a metà gennaio 2011, con la madre seduta nel salotto); mi sono chiesta se potrei espormi in quel modo, se potrei davvero affrontare domande, rivivere circostanze, ricordare magari qualcuno che viveva con me, a cui volevo bene o che conoscevo da anni. Mi sono chiesta se potrei entrare in un studio televisivo, prepararmi con una certa cura per rendermi presentabile per il ‘pubblico italiano’, aspettare il mio turno, sedermi su divani candidi, annuire al presentatore o la presentatrice di turno, e lì raccontare una cosa che fa parte anche della mia vita.
 
Ora, non si tratta di constatare che la medialità è entrata con prepotenza nelle routine, quasi anticipandole, specialmente negli avvenimenti quotidiani luttuosi, dolorosi, di cronaca (nera che sia), nelle tragedie; si tratta di prendere coscienza dell'ennesima virata.
All’origine erano le trasmissioni a contattare, le redazioni, gli addetti della medialità cercavano, selezionavano, e chiamavano. Uno dei casi che, negli anni, ha testimoniato questa dinamica è stato quello di Eluana Englaro, il padre - avviato un preciso iter giudiziario - ha compostamente assistito alla medializzazione della storia di sua figlia, partecipandovi discretamente, rilasciando qualche intervista centellinata, lasciandosi fotografare, partecipandovi senza accettarne del tutto le logiche fagocitanti, a un certo punto la storia di Eluana ha preso ad autoalimentarsi, a diffondersi a macchia d'olio scatenando dibattiti, posizioni, reazioni fino alla nota conclusione. Se c'è stato più sforzo massmediatico o più libera iniziativa della famiglia Englaro, nell'iniziare questo processo, è difficile stabilirlo.
Oggi però (da qualche anno con un'evidenza crescente), sono protagonisti, o coprotagonisti, personaggi principali ma anche comparse: sono loro a mettersi più spesso a disposizione di redazioni, a chiedere attenzione, cercare spazi. E lo palesano senza alcun timore. Dicono: Vi ho chiamato per... Ho chiesto di essere qui perché...
 
In alcuni contesti critici viene definita la ‘televisione del dolore’ anche se ormai i mezzi mediatici sono ampiamente fusi tra loro, intercambiabili e spesso anche sincronizzati (dunque non solo televisione ma anche web – ormai sono abituali i blog a resocontare la tragedia e le sue evoluzioni successive – giornali, radio).
Sarà anche ‘esposizione del dolore’, di certo c’è che raramente ormai è qualcosa di subito passivamente da chi ne resta coinvolto direttamente. Ormai è qualcosa di cercato, qualcosa che appare addirittura necessario, passaggio obbligato.
 
Obbligato per cosa?
Per avere giustizia.
 
È una frase che ho sentito e letto spesso: Voglio giustizia.
Una frase in bocca a genitori, compagni, figli, amici, testimoni.
La stessa Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, ha ripetuto più volte prima del ritrovamento del corpo: aiutatemi a trovare mia figlia.
Quando si tratta di scomparse, evidentemente la giustizia cercata è il poter riavere la persona scomparsa, il poter sapere dov’è e cosa è successo.
In ogni caso – e ce ne sono molti di casi e varianti altrettanto rilevanti e frequenti – ci si rivolge alla medialità per essere aiutati, per arrivare a raggiungere una giustizia che diversamente sembra meno alla portata di tutti, meno incisiva, meno tempestiva, perfino meno giusta.
La medialità nel post reality è percepita come uno strumento da usare (e che contestualmente usa) innescando un meccanismo che si autoalimenta esponenzialmente.
 
Ogni giorno madri, padri, figli, mogli, compagni, fratelli, amici, colleghi, vicini, passanti; ogni giorno volti nuovi si alternano davanti a microfoni, telecamere o registratori, tengono diari on line, rilasciano interviste, espongono sé stessi, corpo e parole, toni della voce, pose e memorie.
In cerca di giustizia.
 
Raccontare è dunque finalizzato a non far dimenticare nel magma dei continui eventi a susseguirsi, in attesa di una risoluzione o qualcosa che s’avvicina, che possa anestetizzare il dolore, calmare la rabbia, mettere in freezer sentimenti e ingiustizie.
 
Che si tratti di un incidente stradale, o un evento di malasanità, passando per l’uso di armi, la chirurgia, le droghe, le malattie mortali, le rivolte armate fuori dal paese; ogni giorno il rischio di essere dimenticato, che una morte, un’ingiustizia sia dimenticata (o messa da parte), è altissimo.
Ecco allora che la medialità arriva in soccorso, negli ultimi anni in particolar modo si è appurato che funziona, rilasciare l’intervista, partecipare a programmi tv, lanciare appelli dai telegiornali in diretta, e via così.
Funziona.
 
In molti, dopo l’escalation che ha portato all’arresto di Misseri poi della figlia, hanno notato quanto l’impatto mediatico abbia scatenato pressioni, o comunque attenzioni continue e crescenti sulla vicenda, pressioni e attenzioni che – pare – hanno contribuito a indagini serrate, rapide e scrupolose. 
In molti hanno sostenuto che la scelta della madre di Sarah di esporsi continuamente, e con lei anche molti altri membri della famiglia, questa scelta è stata determinante per l’escalation investigativa nonché per generare la tensione necessaria a portare a galla indizi, incongruenze fino al crollo dello stesso Misseri.
 
Si palesa così la precisa percezione d’una giustizia mediatica, la percezione che attraverso la medialità si può arrivare a una prima 'sentenza' (tra salotti, trasmissioni e articoli, non è possibile proporre le storie con neutralità; gli ospiti, i conduttori, il pubblico, o semplicemente chi racconta palesa già 'una parte', un primo giudizio) ma soprattutto si può impedire o rallentare l’ingresso nel dimenticatoio.
 
Chiedo giustizia, sono qui per questo.
Il conduttore annuisce, la conduttrice ha una faccia dolente.
Vorrei che la gente sapesse, cos’è successo.
Scorrono immagini del ‘morto’ o la ‘morta’ o del ‘malato’ o la ‘vittima’. E scatta l’applauso del pubblico commosso.
 
Un Paese dove dilaga una simile percezione di giustizia mediatica, che ne ha bisogno e l’alimenta, è un Paese che non crede più alle dinamiche legislative, non crede a Magistrati, Avvocati, iter burocratici legali. Non crede alla giustizia così com’è stata concepita e regolamentata, non crede all’uguaglianza e all’equità.
 
È una paese dove lo spettro dell’ingiustizia, e del silenzio che copre, ignora e dimentica, sono talmente forti e destabilizzanti dall’indurre persone a violentarsi, a volte, o semplicemente a esporsi in momenti delicati, intimi del proprio vivere (ci sono anche precise teorie sui neo moderni bisogni di visibilità, di ottenere popolarità a tutti i costi, di avere i propri 'quindici minuti' di fama, teorie che però in questo contesto non riescono a spiegare la dilagante tendenza espositiva, la quotidiana processione a mettere corpo, voce e sentimenti per resocontare storie d'ingiustizie, di tragedie).

 
Se mio figlio finisse investito da un’ubriaca che perde il controllo della sua macchina.
Se mia madre rimanesse paralizzata per un errore ospedaliero, o morisse a causa di una diagnosi errata, o restasse invalida dopo un intervento sbagliato, o rimanesse sola nella sua merda per carenze nei servizi sociali.
Se venisse ritrovato il corpo di una mia amica, violentata e uccisa.
Se assistessi a una rissa con annessa accoltellata o sparatoria.
Se il marito di mia sorella la buttasse giù dalle scale.
Se nella scuola media dove lavoro ci fosse un giro di spaccio.
E in molti altri ‘se’.
Dovrei chiamare una redazione e raccontare la ‘mia’ storia.
Allora forse non verrà dimenticata.
Allora forse c’è ancora speranza, ricorro alla giustizia mediatica (che è comunque preferibile al resto?).
 
 
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Foto scattata a Verona, gennaio 2011, Bg.

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