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La miccia nel salone della Bna a Piazza Fontana e il calzino sinistro di Aldo Moro in via Caetani

Un capitolo del mio libro, "Il segreto di Piazza Fontana", è dedicato alla miccia scomparsa dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Quella miccia, lunga alcuni centimetri che bruciava alla velocità di uno al secondo, di produzione italiana, ricoperta di guttaperga, era stata vista e ritrovata dal perito Teonesto Cerri arrivato per i primi rilievi dopo la strage. Ci sono decine di sue interviste a testimoniarlo.

Più di un sopravvissuto allo scoppio nel salone aveva detto di aver visto sfumigare sotto il tavolo centrale della Bna e si era sentito l’odore tipico della miccia prima dello scoppio. Ora la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto due anni fa perché negli atti – scrive Il Corriere della sera - non vi è alcuna traccia della miccia, elemento indicativo della presenza di un ordigno.

Questa assenza dal fascicolo era già una certezza del mio libro: quella miccia è il primo e principale depistaggio attuato per tutelare i veri responsabili della strage e non vi poteva quindi essere traccia anche se alcuni dipendenti della Bna e testimoni presenti nel salone misero a verbale la questione del fumo. L’oscillazione tra miccia e timer è ricostruita in dettaglio nell’ inchiesta: il primo telex del questore al governo il 12 dicembre parlava di una miccia ma già la sera stessa Silvano Russomanno, inviato dall’Ufficio Affari Riservati a Milano faceva tirar su la saracinesca di un negozio a Milano e trovava una copia del timer utilizzato. Per giorni si insistette sulla miccia e il Sid stese due veline, una interna, il 16 dicembre, in cui si parlava dello scoppio anticipato come conseguenza di un errore nel congegno ad orologeria. L’altra il 17 che ometteva proprio la questione dell’utilizzo del timer, dell’orologio, elemento che poteva dare la certezza dell’orario dello scoppio. Solo se fosse intervenuto qualcosa anticipatamente quello scoppio poteva scattare ben prima dell’orario di sicurezza perevisto.

Fernando Termentini è uno dei maggiori esplosivisti italiani. Ha lavorato in giro per il mondo per decontaminare le aree dopo una guerra. Ha un’ esperienza ultra trentennale nel settore. Ecco cosa scrive nell’analisi tecnica fatta su mia richiesta nel volume a proposito della miccia, quella che, giustamente, i magistrati milanesi non hanno ne potevano trovare negli atti. Non c’è solo la miccia ad indicare la strada della “doppia bomba”

“Circa il possibile dispositivo d’ innesco degli ordigni, questo doveva consentire un ritardo di almeno due-tre minuti, dall’attivazione all’esplosione, per garantire la fuga dell’attentatore. Qualche testimonianza riferisce di aver udito prima dell’evento uno sfrigolio e di aver notato un leggero fumo provenire dal luogo dove è avvenuta l’esplosione. Oltre ai resti di un timer, fra i reperti fu trovato uno spezzone di miccia a lenta combustione e dei pezzi di filo di rame (sembra con guaina in plastica rossa/blu): elementi che portano a pronunciare qualche ipotesi sul possibile dispositivo di attivazione degli ordigni. Il ritardo della carica primaria potrebbe essere stato verosimilmente realizzato da miccia a lenta combustione, accesa con un dispositivo elettrico oppure con un accendimiccia a trazione con involucro di cartone.

Il dispositivo elettrico sarebbe stato con ogni probabilità costituito da una capsula accendimiccia di tipo Schaffler. Si tratta di un tubicino metallico con due estremità: una, aperta, in cui è infilata la miccia da accendere, e un’altra in cui sono inseriti due fili elettrici, uno rosso e uno azzurro, collegati a normali pile anche di modesto amperaggio. La Schaffler è attivabile attraverso un semplice interruttore artigianale: spingendo il pulsante si sarebbe accesa la miccia che avrebbe innescato l’esplosione in differita di qualche minuto.

Oppure, in alternativa, può essere stato impiegato un accendimiccia a trazione-frizione, sempre collegato alla miccia a lenta combustione, attivato tirando uno spago per accendere il ritardo pirico in completa sicurezza, come se fosse stato un normale fiammifero.

Miccia a lenta combustione, testina elettrica Schaffler o accendimiccia a trazione: questi sistemi e il relativo materiale erano all’epoca tutti facilmente reperibili, perché molto diffusi in ambito civile e militare, ove erano utilizzati anche a fini di addestramento. Fra i reperti, non a caso, compaiono uno spezzone di miccia a lenta, pezzi di filo elettrico di rame a sezione unica come i reofori della testina Schaffler, e parti di una scatoletta di lamierino metallico sottile compatibili con un accenditore elettrico artigianale.

Il ritardo ottenuto dalla lunghezza della miccia a lenta combustione va calcolato tenendo conto delle caratteristiche del materiale e della sua velocità di combustione, che andava da 0,5 a 1,2 cm/sec. Una miccia quando brucia produce sfrigolio, fumo e odore di zolfo, seppure attenuati quando è assemblata con una carica all’interno di un contenitore. L’ipotesi di un ritardo dell’esplosione di dieci-quindici minuti con il ricorso a miccia a lenta combustione non è condivisibile, in quanto si sarebbero dovuti utilizzare non meno di 4,5 metri di miccia che – per quanto fossero nascosti in un contenitore – prima di provocare l’esplosione, avrebbero bruciato saturando l’ambiente di fumo acre e producendo un lungo sfrigolio che sicuramente sarebbe stato percepito dai presenti. Inoltre, nel post-esplosione si sarebbe dovuto individuare un numero molto superiore di reperti specifici, a fronte dei quindici centimetri di miccia di cui riferisce il perito. Molto più verosimile che si siano impiegati non più di 1,5 metri di miccia, corrispondenti a un tempo di sicurezza massimo di cinque minuti”.

Mentre scrivo questo primo post non conosco ancora le motivazioni. Non conosco ancora le motivazioni dell’archiviazione da parte della procura di Milano dell’inchiesta sulla ‘doppia bomba’, nata anche da ”Il segreto di Piazza Fontana”, il libro che ho scritto: spero che rispondano direttamente, non certo a me, ma al dubbio di Emilio Alessandrini. Il giudice, ucciso nel gennaio del ’79, e la cui immagine campeggia all’ingresso del palazzo di giustizia di Milano, aveva messo nero su bianco, nella sua requisitoria, il dubbio sull’uso delle ‘doppie bombe’ nella strage. Alessandrini si era reso conto che l’Ufficio Affari Riservati, nella persona di Silvano Russomanno, aveva manomesso, mischiandoli e facendoli sparire, i frammenti di cuoio delle due borse – una marrone, l’altra nera – direttamente coinvolte nell’esplosione. Questo lo aveva indotto a disporre una nuova perizia basata sulle intelaiature metalliche delle borse. Il risultato fu chiaro. Scrive il giudice: ”Una prima ipotesi potrebbe anche essere che siano state usate due borse e quindi due bombe alla BNA”.

Alessandrini lasciò aperta la questione anche perché mancavano due reperti, la cerniera e il perno di acciaio della stessa: gli unici due elementi che potevano confermare l’uso di due borse nella strage. Quindi, due decisivi frammenti erano stati rubati dall’ufficio reperti del Tribunale e il giudice non poté chiudere il cerchio della sua indagine a causa dell’ennesimo depistaggio. Alla luce del dubbio di Alessandrini ho riconsiderato le perizie dell’esperto Teonesto Cerri il quale disse da subito di aver trovato nel salone della BNA frammenti di miccia e timer che indicavano il doppio e distinto innesco. Cerri disse: ”Il pezzo di miccia combusto l’ho visto”, spiegò.

Inoltre, i rapporti investigativi dell’epoca indicano, basta rileggerli, che nell’attentato alla Bnl di Roma erano state utilizzate due borse con miccia e timer: su che basi dunque escludere che alla Bna di Milano sia stato utilizzato lo stesso schema? E’ stato ascoltato dalla Procura Silvano Russomanno che conferma nel libro l’uso della doppia bomba? Russomanno fu mandato a Milano la sera stessa del 12 dicembre per gestire l’operazione Piazza Fontana. L’Italia e’ piena di inchieste nelle quali i fatti e la logica vanno da una parte e i risultati dall’altra. Non a caso Severino Santiapichi, grande giudice del processo Moro, ha detto che la verità processuale è solo una ”verità verosimile”.

Per Piazza Fontana c’è solo una verità storica, la totale responsabilità dei fascisti, che condivido nel mio libro, solo che la Procura di Milano nel verdetto del 2004 non ha potuto fare altro che assolverli. Quel giudizio, così drammatico per la memoria delle vittime e per tutti noi, è stato possibile, purtroppo, proprio perché i periti dei fascisti riuscirono a dimostrare platealmente che l’esplosivo in loro possesso, caricato insieme ad una borsa, nel bagagliaio della macchina di Carlo Maria Maggi, con destinazione Milano, non poteva essere fisicamente contenuto nella cassetta Jewell sicuramente esplosa a Piazza Fontana. I periti riuscirono a stabilire con certezza che la quantità di esplosivo detonato era pari a circa 6 chilogrammi mentre la Jewell poteva contenerne non più di 1,4. Nel processo non è stata presa in considerazione l’ipotesi del ‘raddoppio delle bombe’ e il giudizio sulla strage è stato condotto così irrimediabilmente in un vicolo cieco. Dopo l’archiviazione di Milano il problema di chi, come e dove usò quell’esplosivo in mano ad Ordine Nuovo resta irrisolto. Mi auguro che almeno in sede storica la verità venga fuori.

Per ora la richiesta di archiviazione mi sembra la perfetta rappresentazione della differenza che c’è e ci deve essere tra un’ inchiesta giornalistica dettagliata e complessa, e un fascicolo giudiziario che deve tener conto solo degli elementi che sono presenti al suo interno e che in questo caso è stato, fin dall’inizio, depurato di tutti quegli elementi, come la miccia, che potevano portare alla “doppia bomba”. Ecco perché un’ archiviazione giudiziaria, se ci sarà, non intacca di un grammo i fatti e le nuove interpretazioni esposte da “Il segreto di Piazza Fontana”.

C’è e ci deve essere una differenza sostanziale tra le sentenze e le inchieste specie quando, come in questo caso, non vi è alcuna certezza giudiziaria alle spalle visto che gli unici condannati per Piazza Fontana sono stati due uomini dei servizi segreti impegnati a tutelare i fascisti, il generale Gian Adelio Maletti e il capitano del Sid Tonino Labruna.

Gli storici invocano la forza di andare oltre il giudicato, ma poi si guardano bene dal farlo. Questa inchiesta non è andata oltre un giudicato perché su Piazza Fontana non c’è una sentenza definitiva ma una serie di sentenze con un “deposito” complessivo di atti. Proprio la rilettura sinottica di tutte le sentenze mi ha indicato la strada delle “due bombe” che era stato il tarlo di Emilio Alessandrini.

C’è tutta la parte di analisi tecnica della questione “due bombe” che nessuna archiviazione potrà mai eludere perché a parlare sono i fatti e solo i fatti. Le opinioni vengono dopo e non prima, come è accaduto per le polemiche nate attorno a questa inchiesta specie da parte di quei ricercatori storici che invocano la possibilità di svincolarsi dalle sentenze. Intanto riapro gli appunti su quanto ha scritto Severino Santiapichi, che abbiamo già citato: 

“Sono presenti a noi giudici le differenze tra la fissazione formale di un fatto -che avviene nel processo- e la fissazione della verità che dovrebbe essere effettuata con altri strumenti, che non sono limitati come i nostri, incanalati entro rigidi binari, al di là dei quali sarebbe un guaio se noi andassimo. Quindi anche un fatto su cui è intervenuta una nostra sentenza è sempre suscettibile di una diversa rivisitazione”.

E mi sembra che, archiviazione o no, le “doppie bombe”, vista la mole di elementi e conferme dirette ed indirette messe a disposizioni dei lettori rappresentino per Piazza Fontana quello che la sabbia sul calzino sinistro di Aldo Moro rappresenta per i 5 processi sulla uccisione del Presidente della Dc: un dato di profonda contraddizione con la ricostruzione genericamente accettata.

A meno di sostenere che via Montalcini e il suo garage, dove ufficialmente Moro viene ucciso, non sia il riva al mare. Quello è un fatto incontestabile e tale rimarrà, sentenze o no.

C’è un’ intera parte del libro “Il segreto di Piazza Fontana” dedicata a “Quello che manca” dall’inchiesta sulla strage del 1969. Solo il tener conto di quello che è stato sottratto, manipolato e vanificato all’interno dell’inchiesta giudiziaria, infatti, può indicare la strada della “operazione di intelligence” e delle “doppie bombe” dando così una spiegazione al perché organi dello Stato si sono impegnati proprio a depistare mischiando i reperti, sottraendo elementi fondamentali, come la miccia, facendo fuggire all’estero testimoni o imputati. E’ giusto chiedersi, cercare di capire, quale fosse il “segreto” da tutelare, quale l’interesse che aveva lo Stato a intervenire così direttamente e pesantemente. La risposta complessiva di 700 pagine è univoca: “le doppie bombe” con la necessità di coprire i gruppi fascisti lasciando nel “cono di luce” delle indagini solo la sinistra.

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