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La fuga degli investimenti esteri dall’Italia

Non solo il caso British Gas, nel 2011 gli investimenti diretti di aziende straniere in Italia sono diminuiti del 53%.

Colpa della crisi, certo, ma la media europea si ferma al - 7%, quanto basta per porsi qualche domanda sullo scarso appeal che il nostro paese ha nei confronti del business internazionale.

Il fallimento della realizzazione del rigassificatore di Brindisi (250 milioni di investimenti stanziati a vuoto, 25 esuberi e 1.000 posti di lavoro andati in fumo) è solo l'ultimo di una lunga serie: sono fermi il rigassificatore di Trieste (500 milioni previsti dalla società spagnola Union Fenosa) e quello di Livorno (600 milioni stanziati dalla Solvav).
 
Non va meglio in Sicilia, dove non si sbloccano i progetti di Porto Empedocle (800 milioni pronti) e della Erg per Rivara (350 milioni). Secondo un calcolo dell'Osservatorio Nimby Forum, in Italia ci sono 331 impianti contestati e bloccati da anni. Non certo un buon auspicio per le imprese che decidono di investire e produrre nel nostro paese. 
 
La logica è semplice, quando una multinazionale deve decidere dove investire non valuta solo il costo del lavoro (che tra l'altro da noi è tra i più onerosi d'Europa) ma verifica una serie di fattori strutturali: il tasso di crescita del paese, la capacità del sistema di creare un ambiente favorevole ed attraente per la circolazione dei capitali, la garanzia di omogeneità normativa e certezza su tempi e procedure. 
I veti incrociati e le continue opposizione di associazioni, enti locali, ecc., invece non sono di sicuro un bel biglietto da visita. 
 
In questo modo l'Italia arretra e nel 2012, secondo la classifica "Doing Business" stilata dalla Banca Mondialesiamo scesi dall'83esimo all'87esimo posto nella pagella sull'accoglienza industriale di un singolo paese, dietro ZambiaAlbania e Mongolia. Anche la lentezza della giustizia civile gioca un ruolo decisivo: 1.200 giorni in media per risolvere una controversia, il quadruplo dei tribunali francesi. Senza dimenticare la burocrazia imperante che prolunga i tempi necessari per l'avvio di un'impresa ed i costi elevati dell'elettricità.
 
Un mix di ostacoli che provoca non solo l'assenza di nuovi investimenti in Italia, ma anche la fuga di quelli che ci sono già. Per esempio i ritardi della banda larga hanno costretto Alcatel a lasciare gli stabilimenti di Concorezzo, alle porte di Milano. Nokia e Motorola hanno chiuso due centri di ricerca all'avanguardia in Piemonte e Lombardia per trasferirsi negli Stati Uniti.
 
In passato l'Italia ha venduto all'estero tutte le sue migliori aziende farmaceutiche, subendo la migrazione dei principali centri di ricerca nel settore: la Glaxo a Verona, AstraZenecaPfzerSanofi e Wveth. Con gli investimenti pubblici fermi da anni, che anzi nel 2012 scenderanno da 42 a 35 miliardi, le imprese italiane faticano a creare occupazione e tendono di conseguenza a delocalizzare.
 
Per affrontare lo stagnante immobilismo all'italiana, il presidente dell'Eni e del Comitato investitori esteri di Confindustria Giuseppe Recchi auspica "una singola realtà coordinata dal ministero per lo Sviluppo in grado di consultare tutte le parti interessate a un progetto in tempi brevi, un tavolo unico in cui si mettono a confronto dubbi, richieste e contestazioni. Dove si possa modificare il progetto o anche decidere di non avviarlo. Ma che dia la certezza, una volta chiusa la fase decisionale, di non aver più sorprese"

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