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La crisi delle democrazie e il pericolo populismo

La democrazia liberale è sfidata in quasi tutti i paesi occidentali da un nuovo nemico politico: la combinazione tra populismo e nazionalismo.

 La fine della Guerra Fredda, a seguito della caduta dell’Unione Sovietica, aveva fatto pensare a numerosi osservatori che i principi dello Stato di diritto e della legittimazione del processo elettorale con cui vengono scelti periodicamente i governanti si sarebbero diffusi a macchia d’olio per tutto il globo. Capofila di tale pensiero è stato Francis Fukuyama che, con il suo libro “La fine della storia e l’ultimo uomo” pubblicato nel 1992, decanta la definitiva vittoria della democrazia sui totalitarismi e autoritarismi. Lo stesso autore negli ultimi anni ha denunciato il suo eccessivo ottimismo e affermato che la fine della storia è rimandata a data da destinarsi. L’ordine liberale non è però mai riuscito ad assestarsi nelle relazioni internazionali in seguito a quella data, anzi è sempre più radicalmente messo in discussione.

 Il multilateralismo delle istituzioni internazionali e il pluralismo di quelle nazionali sono continuamente sottoposte ad una critica feroce da parte di leader e forze politiche che rivendicano l’autonomia nazionale nel processo decisionale e che i vari popoli siano ingabbiati dalle suddette istituzioni. Sono queste le tesi che stanno facendo emergere in numerosi paesi dell’Occidente leader populisti che, grazie alla legittimazione elettorale, mettono in discussione i vincoli liberali dello Stato di diritto, oltre che ai rappresentanti associati a questo sistema. In questo modo viene mobilitato il popolo contro le tradizionali élites (politiche, economiche, amministrative e culturali) che sono le colpevoli di una gestione corrotta e poco lungimirante. In tale processo, i leader populisti hanno riscoperto il concetto di nazione come il luogo naturale di esistenza del popolo, rilanciando così il nazionalismo come una nuova ideologia politica.

Secondo il noto economista Barry Eichengreen, la situazione attuale è il risultato di un processo di globalizzazione che non è stato governato e della crisi economica del 2008 che hanno comportato queste esigenze e conseguenze sociali. La crisi finanziaria ha accentuato le disuguaglianze sociali interne ai paesi occidentali, nello stesso tempo in cui la globalizzazione le stava riducendo tra gli Stati occidentali e non. Secondo la sua interpretazione, il populismo è la reazione all’impatto della globalizzazione che porta con sé progresso tecnologico e sociale, su categorie di persone che non sono più in grado riqualificare la propria posizione lavorativa.

La globalizzazione ha reso possibile l’arrivo di merci e beni prodotti a costi bassi nelle economie non occidentali, mettendo in crisi le tradizionali attività produttive situate in Occidente. Il populismo si è proposto come la soluzione politica con la quale i lavoratori che vedono scomparire le proprie occupazioni cercano di arrestare il declino della loro condizione economica, spingendo verso politiche protezionistiche e redistributive. Il già citato Francis Fukuyama, attraverso il suo volume “Identità”, teorizza che il sostegno al populismo scaturisce da una perdita di senso della vita da parte di numerosi cittadini occidentali.

Le disuguaglianze sociali sono rilevanti poiché accentuano la percezione di marginalizzazione di alcune persone facenti parte di importanti segmenti della società. Una delle principali motivazioni è da ricercare nel fenomeno dell’immigrazione, in costante aumento negli ultimi anni, che ha portato in superficie la sensazione di estraneazione soprattutto in quei paesi che sono caratterizzati da flussi migratori provenienti prevalentemente da paesi di religione islamica. È stata la minaccia identitaria che ha dato ampio respiro e diffusione al populismo in numerosi paesi dell’Occidente. Infine, vi è una terza interpretazione sulle modalità in cui è salito in auge il populismo che mette a repentaglio l’intero impianto democratico in diversi paesi e sistemi internazionali: è quello proposto da Moffitt e Tormey nel volume “Rethinking Populism: Politics, Mediatisation and Political Style”, in cui affermano che tale fenomeno è il risultato di una trasformazione della comunicazione politica, dovuta alla diffusione dei social media che hanno superato i canali tradizionale di informazione tra cittadini e potere, velocizzando e accentuando il processo già in corso di disintermediazione.

Il populismo, in tutte le sue sfaccettature, rappresenta un atteggiamento sociale che intende scardinare i tradizionali sistemi politici ed economici faticosamente conquistati e raggiunti dal secondo dopoguerra in poi. La narrazione della competizione elettorale è stata irrimediabilmente mutata e spostata da un confronto tra la sinistra e la destra ad una sfida esistenziale alla democrazia liberale e alle sue forme di potere. I leader e i movimenti populisti non vogliono solamente sostituire un partito o una coalizione di governo, ma hanno l’obiettivo di mettere in discussione un sistema rappresentativo che, secondo le accuse più accreditate, ha avvantaggiato il sistema delle élites a discapito del popolo.

L’Europa si è dimostrata il terreno più fertile per gli attacchi populisti che, unendosi a tesi nazionalistiche, si presenta come sovranismo. Sono numerosi gli osservatori politici che ritengono possibile che il perseguimento dell’abbattimento dei vincoli imposti dall’Unione Europea da parte dei populisti-nazionalisti sia la base per poter adottare strategie autoritarie in patria. In fondo, il processo di integrazione economica e politica nacque proprio dalle terribili conseguenze dell’esasperazione di tali ideologie che hanno condotto al secondo conflitto mondiale. L’addomesticamento delle relazioni internazionali tra gli Stati europei fu considerato, dai padri fondatori, una condizione per contenere le spinte antidemocratiche interne ai vari Stati nazionali. Per questo motivo fu creata un’organizzazione sovranazionale, dotata di istituzioni e giurisdizioni indipendenti dagli Stati che ne fanno parte. Il collante che tiene insieme i paesi europei è costituito dalla condivisione dei principi propri della democrazia liberale, anche se non è mai stata redatta e approvata una Costituzione che formalmente sancisse tali principi. Ma, de facto, l’Europa integrata ha seguito l’indicazione di James Madison (architetto della Costituzione americana), secondo il quale le maggioranze hanno più difficoltà a diventare tiranniche se si estendono le dimensioni della comunità politica e si rafforzano i contropoteri sovranazionali. Gli studiosi sono alla costante ricerca di metodi con cui prevenire il pericolo della nascita di democrazie illiberali. In primo luogo, è necessaria la consapevolezza da parte delle forze democratiche di dover combattere elettoralmente contro i populisti e non allearsi a loro.

La storia ha già insegnato che le coalizioni aventi all’interno leader autoritari non hanno funzionato nell’opera di salvaguardia della democrazia e della pace. In secondo luogo, secondo alcuni esperti di scienza politica, è necessario legittimare il processo democratico attraverso pratiche di democrazia diretta, continuando però a difendere le istituzioni costituzionali di garanzia mantenendo intatta l’indipendenza del potere giudiziario. Infine, lasciare sempre più libera l’informazione che però sia in grado di avere senso critico dell’operato di governo e non dia spazio alle “fake news” che comportano una distorsione sempre più evidente della della realtà. In tutto il mondo vi è una crescente percezione di un arretramento delle democrazie a favore di sistemi illiberali come Venezuela, Thailandia, Turchia, Ungheria e Polonia. Larry Diamond, uno dei maggiori esperti di sistemi democratici, ritiene che la democrazia sia in un’inarrestabile fase di recessione.

Tutti i criteri sono nettamente peggioramenti a seguito della fine della Guerra Fredda. Negli anni Novanta le democrazie liberali occidentali non avevano rivali quanto a potere politico, militare, economico e ideologico, poiché era da tutti considerata come l’unica alternativa percorribile per perseguire il progresso. Il panorama internazionale attuale è ampiamente mutato. L’influenza degli Stati Uniti e dei singoli paesi dell’Europa è in declino, mentre sembra in costante ascesa quella della Cina e della Russia di Putin. Inoltre, con l’affermazione di nuovi modelli autoritari in varie parti del mondo, la democrazia non riesce più a presentarsi come l’unica alternativa o quella migliore. È vero che i parametri a livello internazionali non sono più favorevoli come un tempo, ma ci sono anche politologi che ritengono le democrazie molto più solide di quanto possano apparire attualmente, poiché il numero di tale sistema di governo non è diminuito dal 2005 (anno del picco massimo di democrazie presenti nel mondo) ad oggi. La percezione di debolezza è dovuta dalla differente attenzione mediatica con cui viene affrontato un crollo del sistema democratico in alcuni paesi, piuttosto che miglioramenti in tal senso in altri Stati. Infatti per ogni Turchia, Ungheria o Venezuela, vi sono paesi come Colombia e Tunisia che hanno visto grandi miglioramenti e sono diventati sempre più democratici.

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