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La crisi del capitalismo e il bisogno di comunismo

Per raccontare la crisi i mezzi di disinformazione di massa hanno divulgato notizie false e distorte come l’idea che la fase critica abbia esaurito gli effetti più duri e sia in corso una ripresa dell’economia. All’inizio qualcuno ha avuto interesse a seminare il panico perché grazie alla psicosi sociale ha realizzato altre operazioni speculative. Oggi si soffia nella direzione opposta, accreditando l’idea che la bufera sia cessata.

Per raccontare la crisi i mezzi di disinformazione di massa hanno divulgato notizie false e distorte come l’idea che la fase critica abbia esaurito gli effetti più duri e sia in corso una ripresa dell’economia. All’inizio qualcuno ha avuto interesse a seminare il panico perché grazie alla psicosi sociale ha realizzato altre operazioni speculative. Oggi si soffia nella direzione opposta, accreditando l’idea che la bufera sia cessata. Secondo una leggenda metropolitana la recessione si colloca nell’orbita delle speculazioni dell’alta finanza internazionale. E’ indubbio che una parte di responsabilità sia ascrivibile al cinismo degli speculatori, tuttavia la sostanza della crisi è riconducibile alle contraddizioni insite nella natura stessa dell’economia mercantile. Infatti, un’economia di mercato senza mercato è una contraddizione in termini, per cui se la crisi non si risolve il sistema rischia la bancarotta. Non a caso si assiste al crollo verticale degli investimenti, dei salari, dei prezzi e del saggio di profitto, che approfondisce la crisi.

La principale causa delle crisi che investono il capitalismo è da individuare nel crollo del saggio di profitto. Il processo di accumulazione e concentrazione del capitale accelera la caduta tendenziale del tasso di profitto: tendenziale nel senso di una tendenza che contrasta con altre tendenze connaturate al sistema stesso. Tuttavia, non sono da escludere altre cause. La ragione ultima risiede nel crescente impoverimento dei lavoratori e nel crollo dei consumi che contrasta con la necessità di accrescere il bacino dei consumatori. In parole semplici, quando i salari si riducono troppo, calano anche i consumi delle masse lavoratrici e ciò incide sui profitti, che precipitano in caduta libera causando effetti di proletarizzazione della piccola e media borghesia imprenditoriale.

Dunque, quella in corso è una crisi di sovrapproduzione e sottoconsumo. Ciò significa che negli ultimi anni si è compiuto un ciclo di accumulazione smisurata di profitti dovuti ad un eccessivo sfruttamento dei lavoratori. I quali, a dispetto dei ritmi e degli standard di rendimento produttivo indubbiamente elevati, sono sempre più poveri. Ciò è accaduto in tutto il mondo a causa di un processo di globalizzazione imperialista che ha creato condizioni di miseria e sottosviluppo, imponendo livelli sempre più bassi del costo del lavoro su scala mondiale, benché gli operai abbiano fatto e facciano più del loro dovere.

Se è vero che i capitalisti sono i maggiori responsabili della crisi, è altresì vero che neanche i politici, servi e funzionari del capitale, sono innocenti. La demagogia, l’inettitudine e l’improvvisazione dei ceti politici, la disinformazione dei media ufficiali, sono la conferma dell’inganno insito nella natura stessa dell’economia capitalista. Un personale politico formato da inetti e presuntuosi, affaristi senza scrupoli, è responsabile delle scelte che hanno accelerato il collasso dell’economia internazionale.

Questa recessione è il prodromo di una depressione senza precedenti, per la cui soluzione non valgono rimedi e misure demagogiche quali l'autoriduzione dei megastipendi dei manager. La crisi ha rivelato l'inconsistenza della classe politica internazionale, incapace di fronteggiare le sue conseguenze in termini di conflitti sociali. Per esorcizzare la paura ancestrale della "bestia", il terrore suscitato dallo spettro di rivolte popolari che si riaffacciano sullo scenario storico, le classi dirigenti potranno ricorrere ad una repressione più dura invocando svolte autoritarie e liberticide.

In passato, per scongiurare altre crisi economiche il sistema capitalistico ha escogitato soluzioni all’interno dell’orizzonte capitalistico con il ricorso all’interventismo statale e all’ampliamento della spesa pubblica. Si pensi a scelte di ispirazione keynesiana, o a risposte neoimperialiste per difendere l’ordine padronale. Le politiche neocoloniali non sono servite solo alla ricerca di uno sbocco per le merci dei paesi capitalistici più sviluppati o di un luogo dove reperire materie prime a buon mercato e manodopera a basso costo, ma sono state anche un modo per conquistare aree in cui espandere il capitale senza affrontare la concorrenza di settore. La corsa al riarmo fu la strada scelta dalle classi dominanti per uscire dalla depressione del 1929 che ha condotto alla seconda guerra mondiale. Il nazifascismo fu un altro tipo di reazione delle classi dirigenti alla crisi del primo dopoguerra e contribuì ad acuire i conflitti tra le potenze imperialistiche.

Oggi l’ipotesi più accreditata negli ambienti “progressisti” non sarebbe l’abolizione del capitalismo, ma una soluzione "keynesiana" già sperimentata in passato con esiti solo transitoriamente positivi. La storia insegna che l'intervento dello Stato è invocato dai capitalisti e dai loro servi solo in tempi di depressione per "socializzare le perdite" e salvare gli interessi delle imprese capitalistiche, per soccorrere il sistema quando rischia di collassare, facendo pagare gli effetti della crisi ai lavoratori, mentre in tempi di "vacche grasse" si pretende di rilanciare la "libertà del mercato", cioè la libertà dei profitti e degli affari senza alcuna ingerenza dello Stato, tornando a privatizzare gli utili e violando ogni regola e ogni diritto. E’ chiaro che si tratta di una soluzione comoda solo per i soliti sciacalli e speculatori che restano impuniti per i loro delitti contro la società.

Nel caso odierno la fuoriuscita dalla crisi è possibile solo attraverso la fuoriuscita dal capitalismo. Ovviamente tale prospettiva spaventa i capitalisti e i loro servi. Per arginare l’esplosione di rivolte sociali come quelle nel Maghreb, i capitalisti invocheranno soluzioni di stampo fascista (in versione aggiornata) che potranno condurre ad una corsa al riarmo e ad uno sbocco bellico, cioè un lungo ciclo di guerre internazionali. Pertanto, l’unica alternativa per scongiurare la catastrofe è quella di una fuoriuscita dal capitalismo. Ciò significa restituire al lavoro collettivo il valore che gli spetta, recuperare il primato del lavoro sociale in un assetto di autogestione delle aziende da parte dei lavoratori. E’ evidente che non basta appropriarsi dei mezzi di produzione, ma bisogna trasformare radicalmente il modo di organizzare e gestire la produzione stessa. Infatti, le imprese capitalistiche sono state create per ottenere ingenti profitti e non per soddisfare le esigenze vitali delle persone. E' la loro struttura intrinseca ad essere viziata. Occorre riconvertire le aziende verso la produzione di beni primari in modo che il valore d'uso riacquisti il suo antico primato sul valore di scambio e che l'autoconsumo delle unità produttive locali prevalga sui bisogni consumistici indotti dal mercato, eliminando la subordinazione delle istanze sociali alle leggi del profitto.

Non credo all’ineluttabilità del crollo del capitalismo. Semmai accetto l’idea di una necessità intesa come tendenza insita nello sviluppo storico. Penso alla necessità di una rottura legata alla volontà, alla possibilità e alla capacità di un’azione politicamente rivoluzionaria. Non penso che il crollo del capitalismo sia inevitabile, ma sono convinto che tale compito rivoluzionario sia un atto volontaristico che spetta alle classi lavoratrici, se e quando queste sapranno organizzarsi per la conquista e l’autogestione del potere e della proprietà economica. Allo stato attuale tale risultato è ancora lontano dalla sua realizzazione. Il proletariato internazionale sta rispondendo alla crisi, ma le rivolte sociali sono oscurate dai mass-media ufficiali che temono l’estensione delle lotte di classe. Concludo ricordando che siamo solo all’inizio della crisi, nella fase embrionale delle contraddizioni di classe tra la borghesia capitalista e il proletariato internazionale.

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.36) 2 marzo 2011 20:07

    Conti in tasca >

    Il PIL del 2010 è pari al 94,7% di quello ante-crisi (2007). Salvo nuove amare sorprese, non si prevede di tornare ai valori ante-crisi prima del 2014.
    Nel contempo l’inflazione è cresciuta del 7,4% e la capacità di spesa delle famiglie si è ridotta di oltre 800 euro.

    In soli due anni il Debito pubblico è aumentato di quasi 190 miliardi ed ha raggiunto i 1850 miliardi (30mila euro per cittadino).
    Anche l’indebitamento privato delle famiglie è cresciuto del 28,7% sfiorando i 20mila euro.

    Il CNA calcola che nel 2010 il 53% dei pensionati vive in condizioni di precarietà economica. La disoccupazione “reale” staziona all’11%. Risulta disoccupato 1 giovane su 3 nonostante che 1 giovane su 5 abbia ormai rinunciato a cercare lavoro.

    “Siamo nella direzione giusta”, commenta Tremonti.
    “Solo noi possiamo ammodernare l’Italia”, assicura Berlusconi.
    Intanto la crisi, ex-ripresa passata a “semi-crescita”, pesa su imprese e famiglie come Se fosse Stagnazione

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