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La carica rivoluzionaria della Grande Guerra

Perché continuare ancor oggi a celebrare il 4 Novembre

Il 4 Novembre 1918 segna la fine di un cambiamento epocale, nonché della Grande Guerra, conflitto di proporzioni mai viste sino ad all'ora.

L'Italia, a distanza di 92 anni, non può dimenticare alcune circostanze che hanno interessato un'intera generazione, le cui passioni, speranze, i cui propositi sono stati talora falciati dal piombo delle trincee, oppure hanno contribuito in maniera determinante alla caratterizzazione degli anni del primo dopoguerra.

Le campagne del risorgimento, seppure meritino tutta la nostra reverenza e considerazione, non vantano una partecipazione di tutte le classi, né un sacrificio tale da esser paragonate, prese tutte assieme, ad una sola delle battaglie del '15 – '18.

Il Governo Sabaudo, il 24 maggio 1915 sceglie, dopo l'incertezza iniziale, di venir meno ai patti con gli imperi centrali, per il compimento del Risorgimento e la liberazione dei territori italiani soggetti al dominio asburgico. Si schiera con la coalizione alleata, al fianco di Gran Bretagna, Francia, Russia e poi Stati Uniti, per combattere contro l'Austria – Ungheria. La polemica sull'intervento nel conflitto si profilava tra neutralisti ed interventisti. Ed è proprio il fronte interno, che viene sempre descritto come un unicum proteso al raggiungimento di quell'obiettivo, ad essere quanto mai variegato nelle sue sfaccettature. Non si può più parlare di un unico blocco nazionalista che vedeva la Grande Guerra come conflitto di rigenerazione nazionale sulle sponde dell'Adriatico, bensì troviamo nelle file dei volontari le seguenti categorie, ancor oggi rimosse dalla storiografia moderna: i repubblicani, il cui maestro ideale era Giuseppe Mazzini; i democratico – mazziniani, vicini al socialismo, nelle cui fila militarono i Fratelli Stuparich; i sindacalisti rivoluzionari, tra cui spiccano Benito Mussolini e Filippo Corridoni, fautori della guerra come oggetto di rinnovamento sociale, dal quale sarebbe scaturito un nuovo mondo, sopravvissuto ai detriti di un vecchio medioevo; i nazionalisti, in favore di una più grande Italia, ove Trieste si situava come la testa di ponte per il ricongiungimento della regione adriatica all'Italia; i monarchici, agli ordini del Re e della sua tradizione. Da una parte quindi, troviamo un fronte liberal – nazionale di stampo patriottico, e da un'altra un interventismo democratico, proteso alla liberazione nazionale dei territori oppressi dal dominio asburgico, secondo il messaggio mazziniano, nel rispetto delle specifiche identità.

Ed è proprio in questo contesto che si stagliano alcune delle più grandi avanguardie letterarie del secolo scorso, come La Voce e Lacerba, nonché il fenomeno futurista. La generazione vociana trova il suo impegno in una letteratura di impegno morale e civile, che farà conoscere agli italiani determinate realtà (sociali e culturali) per l'epoca sconosciute. Solamente un genio come Giuseppe Prezzolini riesce ad unire, sotto la sua direzione, menti diversissime come: Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, Benito Mussolini, Piero Jahier, Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper, Guido Devescovi, Biagio Marin, Giovanni Boine, Emilio Cecchi, Dino Campana, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, nonché molti altri. La Voce, organo di rinnovamento della cultura italiana dell'epoca, come lo sarà il Mondo di Pannunzio nel secondo dopoguerra, potrà vantare peculiarità culturali sinora mai affrontate. Il gruppo vociano triestino, guidato ed incarnato da Scipio Slataper cerca una formazione linguistica e stilistica in Firenze, al contrario del gruppo nazionalista, attratto dall'universo romano. Si creano gruppi di studio come Firenze – Vienna, oppure Trieste – Vienna – Praga, nell'ultima delle quali, Giani Stuparich scrive un monumento al patrimonio della civiltà mitteleuropea, ossia il libro La Nazione Ceca, del 1915. A Trieste, si scopre una cultura internazionale in Italia ignota, caratterizzata da personaggi come Ibsen, Hebbel, Rilke, Freud. Gli scrittori triestini, rifiutano il dogmatismo e l'accademismo italiano, assieme a quello tedesco, dando vita a sinergie come quella vociana per il rinnovamento della cultura nazionale italiana. Un incontro di letterati fecondo di opere, nonché di scontri. Ma questa generazione, così presaga della morte di un mondo, della finis austriae, lavora comunque sino alla fine per uno studio di grande respiro, su questioni come quella danubiano – balcanica, slava in generale, e di Trieste stessa. Una missione veramente difficile, ancor oggi a tratti incompresa per la sua avanguardia, ove si sono intrecciati impegno e sentimenti, tensioni febbrili, amori e letteratura. E più d'ogni altra è stata colpita, proprio per il compito e significato storico che Trieste aveva in quegli anni, nella sua stagione storica più vitale. I maggiori interpreti ne sono stati Giani e Carlo Stuparich, dove il lavoro di quest'ultimo, Cose ed ombre di uno, pubblicato postumo, coglie la delicatezza e il valore morale, nonché la fragilità e la limpidezza della poesia di quella generazione, in tutta la sua struggevolezza.

L'Italia, che oggigiorno non riesce a vantare che rarissimi esempi di quel tipo di impegno civile (vedansi Roberto Saviano, in proposito, meteora in uno sconfinato deserto), dovrebbe riflettere sull'esempio delle avanguardie della grande guerra, siano esse state di frontiera o meno. Difatti, vi sono stati interventisti come Curzio Malaparte, al secolo Kurt Erich Suckert, che in La Rivolta dei Santi Maledetti sono riusciti a riassumere altresì lo scopo della loro guerra all'Austria, ossia quella dei socialisti rivoluzionari. Non era tanto conflitto all'Austria – Ungheria, in sé e per sé, bensì possibilità di riscatto, di rigenerazione e rivoluzione nazionale. Trattasi dunque di protofascismo, che vedeva per la prima volta la luce nelle radiose giornate del Maggio del 1915, dove i tribuni dell'intervento agitavano le piazze per veder realizzato quel sogno proseguito il 23 marzo del 1919 e poi il 28 ottobre 1922. Una rigenerazione che doveva passare per il sangue, per le aspettative, per le tensioni e per la sconfitta di Caporetto.

Quest'ultimo appare costantemente nella storia d'Italia. E' una variabile cui si deve passare incessantemente, per risalire la china e tornare ad essere quelli di sempre. Caporetto ha tuttavia, le sue peculiarità. Non si tratta solamente di una serie di errori tecnico – militari, o di pochezza di qualche generale, bensì di una vera e propria rivolta del fante delle trincee, stanco, logoro, umiliato da una strategia inoffensiva, che aveva visto solo un parziale successo nella presa di Gorizia un anno prima. Egli vede 10 battaglie infrangersi nel nulla, distruggendo il morale dei volontari e degli irredenti. Le vessazioni degli alti comandi non facevano che aumentare quel senso di dissenso e volontà di troncare quell'inutile strage, così com'era stata definita dal Sommo Pontefice Benedetto XV. In tutta la sua potenza, il popolo delle Trincee sbanda, perde la rotta e si ribella, sviluppando una mentalità di rivolta ed insofferenza. All'inizio del 1917, fatti una eccezionale gravità travolgono tutti i combattenti d'Europa. Il Fante, da solo, disperato, invelenito, va contro: la legge, la Nazione che non lo capiva, gli esonerati, gli inabili, i retorici, gli speculatori, il Governo. Ed è qui che compare Caporetto, nelle vesti di un fenomeno sociale, di una Rivoluzione, con i tratti di una rivolta di classe (della fanteria), contro uno stato d'animo.. Inizia quindi la tragedia, con a capo, in questa sorta di rivoluzione, il popolaccio delle trincee, composto dai: pezzenti, i ribelli, i veterani delle undici battaglie, lascianti le postazioni per gettarsi contro il Paese, alzando gli elmi e i trofei personali. Tuttavia, con un graduale senso di riscatto e con il recupero della realtà, Caporetto diviene anche un grandioso capolavoro di ritirata strategica, proprio quando le risorse impiegate nell'offensiva austro – tedesca si disperdono nella pianura veneta. Gradualmente, con un cambio della guardia di Comandante Supremo dell'Esercito, e con l'impiego eroico delle classi di leva più giovani, come quelle del 1899 e 1900, l'Italia e il popolo delle Trincee cambia radicalmente. Diviene nuovamente pericoloso, come animato da nuova linfa. La difesa eroica del Grappa e la Battaglia del Piave sono la prova della rinascita immediata dell'esercito e del popolo italiano, provato da 2 anni di guerra di trincea e da una rivolta come quella di Caporetto. L'Italia finalmente aveva dato inizio ad un processo di autocritica, durato sei mesi, sino alla vittoria sul Piave, che diviene meno acuto dopo Vittorio Veneto, cancellando apparentemente la precedente disfatta. E' questo quel che rende opposti Vittorio Veneto a Caporetto. Il primo, diviene l'incoscienza della vittoria, che esilara, gonfia, stordisce, fa dimenticare problemi e ricordi. Il secondo invece, rappresenta invece: la coscienza, la nuda realtà dei fatti, la voglia di rinascita.

La parola Caporetto evoca ancor oggi spettrali scenari, pensieri e considerazioni. Il lemma Vittorio Veneto, invece, non suscita quell'entusiasmo di chi ha trepidamente combattuto. La disfatta fa comprendere che vi sono nemici interni ed esterni, che vi sono dei problemi da risolvere. La vittoria invece, ha contribuito inizialmente ad un ubriacatura patriottica troppo facile, rispondente alla retorica scolastica del Risorgimento. Tuttavia, anche l'Italia sana e buona rinasce, concorde ed umile, severa nei suoi propositi in conferenza di Pace e limitata nelle sue aspirazioni. La nazione trova la sua vittoria guadagnandola con sudore, fatica e lavoro, nonché con umiltà, con unione di intenti, che andava dal colonnello al soldato. Ne nasce la convinzione profusa nei combattenti, solida e silenziosa, che il sacrificio di 3 anni di lunga guerra porterà i frutti sperati. Quelli scritti il 4 novembre del 1918, data da ascrivere nel libro mastro della nostra nazione.

Finalmente l'Italia completa territorialmente l'opera dei padri del Risorgimento. Forse, se non negli italiani, che comunque hanno combattuto tutti assieme nelle trincee del Nord – Est, almeno i confini sono segnati da un certificato di 680.000 morti e milioni di mutilati.

Il dopoguerra vede crescere quelle forze che hanno alimentato l'intervento e il conflitto, accendendo quelle micce innescate nelle radiose giornate del maggio del 1915. La conflagrazione quindi, non rappresenta soltanto il volo dannunziano su Vienna, la gruccia di Enrico Toti morente scagliata contro il nemico, o il salto dei Granatieri sul Monte Cengio. E' un processo vitale che ha attraversato tutte le classi sociali, dal contadino all'intellettuale, dall'operaio al Professore Universitario. E' un passaggio quasi obbligato dell'Italia dell'epoca, che vedrà ad un tratto la modernità ed alcune avanguardie mai ripetutesi nella storia. Certamente, anche una terribile ed inutile strage di massa.

Quello su cui tuttavia si dovrebbe riflettere, è quello slancio ideale, la volontà protesa al raggiungimento di un obiettivo più alto, ossia quello della collettività e della Nazione, senza tralasciare l'ideale di libertà. In tempi moderni pregni di crisi, ove si parla di regionalismi e campanilismi, un impegno profuso in maniera collegiale come quello del '15 – '18 appare cosa assurda, se non d'altri tempi. E' con questo spirito che dovremmo affrontare la commemorazione dei 150 anni dell'Unità della nostra penisola, capendo quale idea mosse i nostri Padri, e quale futuro volevano garantirci. E soprattutto, quale prezzo hanno pagato, per tutto ciò.

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