Quel giorno che la camorra uccise mio padre: intervista a Gennaro del Prete
Federico del Prete, sindacalista, viene ucciso a Casale di Principe il 18 febbraio del 2002. Molte le sue battaglie e ancora di più le sue denunce contro la cattiva amministrazione e i clan camorristici. Una figura per cui il termine eroe è assolutamente appropriato. Gennaro è il figlio di Federico, un’intervista che non solo ripercorre i momenti terribili dell’omicidio, ma cerca anche di dare uno sguardo a ciò che rappresenta oggi la criminalità e la legalità al Sud e la voglia di resistere e cambiare il futuro.
Comprendo che ricordare può essere doloroso, ma ci puoi raccontare i momenti in cui hai saputo dell'omicidio di tuo padre? Quali sono state le sensazioni che hai vissuto?
“Ricordare, è sicuramente doloroso ma mi aiuta a capire ogni volta chi era mio padre, la sua lotta i suoi ideali, e di quanto lo stato debba ancora fare molto, di come l’Italia una parte d’Italia guardi da tutta altra parte. Ero a Bari, nella mia vecchia caserma, mi preparavo a svolgere la cerimonia dell’alza bandiera. Ore 07.45, allacciavo gli anfibi e deridevo il mio vecchio collega, come ogni mattina. Sento squillare il cellulare, era mia nonna,con molta tranquillità le risposi come sempre, e lei con fare superficiale, mi disse: “Gennà’ vien a casa hanna accis a patat…”. In quel momento sono caduto sul letto, stavo male ma non piangevo, il mio amico mi ha stretto forte. All’istante avvisai i miei superiori i quali mi dissero: “ma tuo padre era un camorrista?”. Il dolore divenne più forte, andai subito a Casale di Principe, mi sentivo smarrito. Non riuscivo ancora a capire, vedevo i miei fratelli sul divano a piangere, tanta gente, tante lacrime ma ancora non riuscivo a capire. Non ho pianto. Ai suoi funerali mi sembrava tutto surreale, un film a cui io non avrei voluto partecipare come protagonista, tremavo, il cuore mi tremava, ma non riuscivo a piangere. Non c’era quasi nessuno, nessun politico, nessuna istituzione, se non due miei colleghi dell’esercito e qualche carabiniere, mi chiedevo per quale motivo fosse morto. Mio padre non era un camorrista, eppure non venne nessuno. Quando ho visto la bara uscire, ho preso coscienza della sua morte, ho iniziato a piangere così forte, che vomitai, davo i pugni nel muro dalla rabbia forte, da quel sogno che la camorra aveva infranto, cominciai conoscere mio padre.
Si discute molto di camorra quanto di legalità, dal tuo punto di vista che definizione daresti a questi due termini?
“Legalità non è solo rispetto delle regole e rispetto delle leggi dello stato. Legalità vuol dire innanzitutto cultura, rispetto degli altri in un movimento etico che abitui la gente a non essere più indifferenti e a non percepire la legalità e i diritti come se fossero dei favori, che il politico corrotto e il camorrista di turno ci “FANNO” di volta in volta. Di poi la camorra non è solo un ‘organizzazione criminale, fatta di uomini che per propinare i propri interessi, ledono l’altrui vita, distruggono, inquinano, mortificano, impongono, uccidono. La camorra è un modus vivendi, una questione culturale. vedi alcuni cittadini e specialmente i giovani sono infettati, infettati dal virus, della società industrializzata, delle telecomunicazioni, della globalizzazione, del commercio e soprattutto della povertà. Una società in cui i valori delle subculture sono diventati prepotenti e predominanti, valori come il malaffare, la delinquenza, la superficialità, l’apparire e il non essere, la legge di colui che sopprime il più piccolo, il più debole, come accade nella savana. Viviamo in un mondo e soprattutto in una Campania malata delle eterne emergenze, che a causa delle politiche sbagliate, della disoccupazione, di questa nostra cultura sente e sentirà sempre odore di camorra, se non si abituano le persone i cittadini a vivere di legalità”.
Sei stato riconosciuto vittima di mafia, questo riconoscimento è stato automatico o ha conosciuto ostacoli?
“Tale percorso è stato difficile e sacrificato. Ho lottato al fine di vedermi riconosciuto come figlio di vittima innocente. Lottato per un diritto che la legge, la carta costituzionale mi garantisce. Il diritto alla parità di trattamento. Quello che era mio lo Stato me lo toglieva. In prima istanza ci fu un rigetto da parte del ministero motivato con un non fiscalmente a carico e non potetti ricorrere al Tar per l’esorbitante costo, pertanto scaduti i termini sono andato in tv al programma “Mi manda Rai Tre”, nel 2007 a reclamare al mondo intero la mia causa, giusta causa, di essere figlio legittimo di Federico del Prete, nato dal primo matrimonio con Costanzo Teresa. Grazie alla mia tenacia, sempre nel 2007 dopo pochi mesi, venne modificata la legge madre, ovvero la 302/90 con legge 222/2007 che riconosceva anche ai figli non fiscalmente a carico lo status di vittima innocente”.
Qual è la tua impressione in merito alla lotta alla criminalità organizzata, a che punto siamo e qual è il punto fondamentale su cui concentrare gli sforzi maggiori?
In questa dura realtà sono in campo esperienze di resistenza civile e di cittadinanza attiva, anche se flebili, rivolte a far progredire una cultura della legalità che possa realizzare un vero e proprio argine sociale di contrasto e di lotta ai modelli finora vincenti della camorra. Tra le diverse cose che accomunano le storie di coloro che hanno lottato contro le mafie e poi sono stati ammazzati, il fatto che spesso o quasi sempre l’agguato lo respiravano nell’aria. Era previsto insomma. In tanti servitori della causa della giustizia è stata pronunciata l’espressione: devo essere pronto. Con questa consapevolezza, probabilmente è apparso il sentimento della rimozione, la paura della morte e il dubbio della giusta causa. Ci si sente smarriti per i sentimenti di fragilità che si avvertono nei confronti della stessa causa. Lo smarrimento ti assale, quando vedi che la tua comunità, il tuo paese, va da tutt’altra parte. Un paese che si distrae guardando altrove, anzi fissando lo sguardo verso il miraggio della ricchezza, del successo e del potere dell’apparire. Anche nella lotta contro le mafie può accadere lo scoraggiamento e soprattutto la tentazione che tutto sia inutile. La sfida è assai ardua, ma è la sola che, accompagnata da un comune sentire e da un personale senso di responsabilità, possa restituire prospettive di futuro e di dignità ai giovani ed a intere popolazioni di terra di lavoro e di grandi aree del mezzogiorno. È pur vero che lo Stato è malato, ma esiste una parte di Stato che ancora non lo è, e quella parte di Stato siamo noi cittadini, che attraverso il nostro agire e indipendentemente dai principi costituzionalmente sanciti, dobbiamo fare appello al tribunale della nostra coscienza, contrastando fortemente l’ideologia e il modus vivendi camorristico".
Recentemente ti sei laureato e sei un appassionato studioso di scienze sociali, dal tuo punto di vista la conoscenza e la cultura possono veramente fare la differenza nel cambiamento di un territorio?
“La cultura è tutto. È libertà, è difesa è lotta, è amore per se stessi e per il prossimo. La cultura è il mio primo comandamento. Impara conosci e nessuno ti userà mai, nessuno abuserà, nessuno potrà ardire a ledere i tuoi diritti, nessuno potrà mai mettere sulla scacchiera e muoverti come una stupida pedina".
Vorrei tornare sulla figura di tuo padre: quanto del suo esempio, delle sue lotte è rimasto vivo, credi che la sua figura sia conosciuta per davvero?
“Mio padre è vivo e il suo sacrifico non è stato vano, per alcuni lo è, ma per me no, a cosa è servito? A dare un poco di dignità a questa terra martoriata e come diceva Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini”.
Hai mai pensato di andartene dal Sud e cosa ti ha spinto a restare?
“Non ho mai pensato ad andare via dalla mia terra. Vedi è amore vero quello che mi lega. Amo i pregi e amo i difetti della mia amata Campania Felix. Che andassero via gli altri, i malfattori, i delinquenti, i corrotti, i violenti e chi con le loro azioni violenta questa terra, a chi non la ama. So di avere qualcosa di buono, e che gli altri possano seguirmi a fare qualcosa di buono”.
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