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"La rosa tatuata". Sulla ribalta sassarese, l’oro del Sud

Mariangela D’Abbraccio e Francesco Tavassi esaltano la prosa di Williams. Quando il teatro racconta e insegna la vita. Importante rielaborazione della memoria, per non dimenticare chi siamo o come eravamo.

Un’appassionata vicenda del tardo Novecento con forti richiami contemporanei, ravvivata da appropriate connotazioni sensuali e ritoccati spunti comici, è andata in scena martedì sera al Teatro Verdi di Sassari, nella prima della tournèe sarda della compagnia "Teatro e Società", inserita nel palinsesto di prosa invernale Cedac.

"La rosa tatuata", tratta dal testo di Tennessee Williams, nell’adattamento di Masolino D’Amico, incolla il pubblico in platea per 135 minuti con la regia di Francesco Tavassi e una coppia di protagonisti che rispondono ai nomi di Mariangela D’Abbraccio e Paolo Giovannucci.

Lo spettacolo dopo le due repliche sassaresi, farà tappa a Ozieri, Arzachena e Tempio per chiudere domenica 29 marzo al Teatro Centrale di Carbonia.

 

In una comunità italiana in America, la sarta Serafina (prorompente e superba D’Abbraccio) perde il marito, Rosario, autotrasportatore di banane e corriere di droga, in un ambiguo non ben definito incidente.

Da morto, questi diventa oggetto di culto in nome del quale Serafina impone una feroce castità alla figlia Rosa e a se stessa seppur sollecitata e solleticata da Alvaro (ottimo Giovannucci), anche lui emigrante siciliano e camionista. Divisa tra la fedeltà alla memoria e l’interesse per Alvaro, scoprirà alcune verità sul mestiere e gli amori segreti (tali solo a lei) del marito.

La commedia, ebbe nella trasposizione cinematografica, miglior fotografia in bianco e nero e miglior scenografia con Anna Magnani.

Nella pièce teatrale, è alleggerita nei toni, canzonatori e comici, dalla regia di Francesco Tavassi. Statica la scena sulla casa colonica che ricorda i movimenti americani antirazziali, la prosa evolve con delle accelerazioni rapide, impresse dall’interpretazione accentratrice della protagonista, rappresentante il flusso di immigrati italiani meridionali con il personale bagaglio di cultura nazional - popolare dalle tinte forti.


Questo, lo si trova espresso e professato, in archetipi assoluti e inattaccabili quali: l’indissolubilità della famiglia, la devozione religiosa, la sovrapposizione tra lavoro (di qualsiasi origine) e fatica.

L’altro versante, luogo ospitale ma non troppo, mostra la faccia di un America diversa dal provincialismo del Sud e pronta a raccogliere sfide progressiste, poco inclini a sceneggiate e mandolini.

“Noi siamo Italiani, non abbiamo il sangue freddo”, è un pedigree sventolato con orgoglio da Serafina, cui risponde pragmatica, la prof autoctona: “Non capisco il vostro dialetto”.

Queste opposte visioni, generano inevitabilmente relazioni complicate, avvelenate dai fumi della pazzia che inebria la procace vedova, preda di visioni e presenze: i sogni del marito, le sue reliquie (un’urna ne conserva le ceneri).

La ricerca disperata di materializzarne sembianze, nella rosa scarlatta, il cui tatuaggio, si procurerà Alvaro nella maldestra emulazione dell’unico amore perduto.

Cenni di omosessualità latente nelle vesti del giovane marinaio, promesso fidanzato della figlia Rosa, completano un quadro, dove disagi e drammi familiari, evolvono il tema dell’integrazione etnica e sociale in una modalità chiara e neutra.

La miscellanea di idiomi, rigorosamente meridionali, pone alla riflessione del pubblico un modello di società più che mai contemporaneo, ancor piu irrisolto.

L’ovazione finale di applausi è davvero lunga e premia tutti gli otto interpreti presenti sul palco. Attori bravissimi e da rivedere con gusto.

 

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