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La Badante, la Nonnina, la stampa e la giustizia violentata

Quando la giustizia perde il senso della misura e la stampa si fa complice della gogna sociale

In una località italiana di provincia, dove le relazioni personali e istituzionali si intrecciano spesso in circuiti opachi, si è consumata una vicenda che andrebbe studiata nelle facoltà di giurisprudenza per spiegare cosa non deve mai accadere in uno Stato di diritto.

Una lavoratrice umile e tenace, per quasi vent’anni, ha assistito con dedizione un’anziana signora benestante e lucida, madre di un figlio affetto da disturbi psichici. Tra le due si era instaurato un legame umano oltre che professionale, tanto che, al termine del lungo servizio, l’anziana manifestò la volontà di riconoscere alla donna le spettanze economiche maturate.

Il conteggio fu effettuato da un patronato, validato da un sindacato, e successivamente ratificato dal Ministero del Lavoro. La cifra stimata per i quasi 20 anni di servizio sarebbe stata ben superiore, ma la badante accettò solo 50.000 euro, con un versamento iniziale e il resto in rate da 500 euro — una cifra assolutamente sostenibile considerando le entrate dell’anziana e del figlio.

Al momento dell’attuazione dell’accordo, quando le due si recarono in banca per effettuare l’accredito, accadde l’inverosimile: la banca, violando la privacy dell’intestataria, avvisò i parenti, alcuni dei quali erano da tempo assenti dalla vita della donna. Una parente in particolare, nota per atteggiamenti aggressivi, rubò il libretto bancario direttamente dalla borsa dell’anziana e si precipitò dai carabinieri per denunciare la lavoratrice per circonvenzione di incapace.

Il giorno prima l’anziana era andata a pagare in contanti i contributi INPS, faceva la spesa, accudiva il figlio. Il giorno dopo, venne interdetta con impressionante rapidità, senza perizia preventiva pubblica e con una procedura che sembra avere più del teatrale che del giuridico.

Ma il punto più basso della vicenda fu toccato con l’umiliazione pubblica dell’anziana, trascinata in tribunale su una sedia a rotelle — quando fino a pochi giorni prima camminava perfettamente — esibita davanti ai giudici e al pubblico come un trofeo da dimostrare, per rafforzare l’ipotesi accusatoria. Una messinscena inquietante che ha ricordato a molti i processi-farsa del secolo scorso.

Nel frattempo, la stampa locale aveva già confezionato il suo piccolo linciaggio mediatico. Un giornalista di una testata minore (fortunatamente ignorata dalla stampa nazionale) pubblicò un articolo formalmente anonimo, ma ricco di dettagli inequivocabili: venivano indicati località, iniziali della presunta accusata, e persino il nome dell’avvocato difensore, il quale fu anche contattato direttamente dal cronista, probabilmente informato dalle stesse fonti giudiziarie. L’intento era chiaro: trasformare un’indagine in spettacolo, un sospetto in sentenza morale.

E qui avviene l’ulteriore violazione dello stato di diritto:
l’articolo, benché anonimo e non firmato, fu inserito come “prova” nelle carte processuali.
Una vergogna giuridica. Una confusione gravissima tra cronaca e giurisdizione, dove un testo giornalistico ambiguo, ricolmo di insinuazioni, è stato trattato come se fosse una perizia o una deposizione. Nessuna verifica. Nessuna perizia grafologica o ordine di esibizione. Solo il timbro della pubblica accusa, che lo ha avallato come elemento utile all’impianto accusatorio.


Cosa dice questa vicenda sulla giustizia italiana?

Che il principio “in dubio pro reo” è stato di fatto abolito, specie se a essere coinvolta è una persona socialmente debole, non protetta da poteri, conoscenze o denaro.

Che la contiguità tra stampa e procura è ormai talmente accettata da non scandalizzare nemmeno quando un articolo non firmato finisce in un fascicolo processuale.

Che la magistratura italiana è priva di reali strumenti di controllo interni ed esterni:

  • Nessuna certificazione psichica periodica dei giudici, benché operino su vite e destini al pari dei medici, dei piloti o dei militari.

  • Nessuna punibilità concreta per errori, negligenze o omissioni, se non dopo percorsi interminabili e quasi sempre vani.

  • Nessuna barriera all’uso strumentale dell’interdizione, oggi divenuta troppo spesso un’arma per neutralizzare la volontà degli anziani e sottrarli alle relazioni che la famiglia non approva.


Verso una riforma vera

Alla luce di tutto questo, sarebbe necessario:

  • Un organo di vigilanza esterno alla magistratura che analizzi casi di abuso d’ufficio, collusione con la stampa e uso improprio dei mezzi di coercizione;

  • Sanzioni vere e applicabili per ogni violazione del segreto istruttorio e per ogni fuga di notizie preordinata al linciaggio pubblico;

  • Un registro pubblico delle interdizioni e delle relative perizie, con possibilità di accesso anche da parte di enti civici indipendenti;

  • E soprattutto, l’obbligo per ogni organo giudiziario di respingere materiale non probatorio come articoli di stampa anonimi, se non motivandone formalmente l'acquisizione con garanzie per l’imputato.


Quando la giurisprudenza viene ignorata: il caso che non doveva nemmeno iniziare

Ciò che rende questa vicenda ancora più grave è che il procedimento penale non sarebbe nemmeno dovuto partire, alla luce di un principio giurisprudenziale più volte affermato dalla Corte di Cassazione:

"Non può configurarsi il reato di circonvenzione di incapace quando intervengono soggetti terzi qualificati — come patronati, sindacati, consulenti — nella redazione e nella validazione di un atto negoziale."

Nel caso in esame:

  • Il titolo economico (liquidazione TFR e spettanze) era stato redatto con l’ausilio di un sindacato,

  • Validato successivamente dal Ministero del Lavoro,

  • E persino presentato alla banca non con modalità fraudolente, ma con la piena volontà dell’anziana, che era in grado di camminare, parlare, pagare contributi e fare la spesa sino al giorno prima dell’interdizione.

In tali condizioni, mancava del tutto il presupposto soggettivo e oggettivo della circonvenzione: non c'era alcun isolamento della presunta vittima, né raggiro, né situazione di minorata capacità tale da compromettere la validità dell’atto.
Anzi, il comportamento della badante fu esattamente opposto: accettò una somma molto inferiore a quella stimata dal patronato, rinunciando a quasi l’80% del dovuto, in un atto di equilibrio e buon senso.

Il principio giurisprudenziale in materia è chiarissimo, come ribadito ad esempio in:

  • Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 43682/2015

"L'intervento di soggetti terzi esperti e la natura negoziale pubblicamente riconosciuta dell’atto sono elementi idonei ad escludere la sussistenza del reato di circonvenzione."

  • Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 23049/2008

"In assenza di isolamento dell’incapace e di approfittamento doloso, non può configurarsi il reato di cui all’art. 643 c.p."

Nonostante ciò, il tribunale non ha archiviato l’indagine. Anzi, ha permesso l’inserimento di un articolo di giornale (formalmente anonimo, ma identificabile), ha accettato la tesi di un parente che aveva persino sottratto fisicamente il libretto bancario, e ha trascinato una persona disabile in aula come dimostrazione fisica, senza rispetto né per la dignità né per il quadro normativo.


Una giustizia che ignora la legge per seguire l’eco mediatica

È difficile non vedere in questo un grave caso di inseguimento della visibilità pubblica da parte dell’organo inquirente. Una forma di “populismo giudiziario”, dove si sacrifica il diritto per accontentare l’istinto della piazza e le insinuazioni della stampa.

La decisione di non archiviare una denuncia infondata, nonostante:

  • la giurisprudenza di legittimità contraria,

  • la documentazione valida e pubblica a sostegno della lavoratrice,

  • e l’assenza di condotte fraudolente,

rende evidente che il caso è stato strumentalizzato per fini esterni alla giustizia, con grave nocumento per l’imputata e per la credibilità dell’intero sistema.

 

Una donna sola contro un sistema cieco

Oggi, la lavoratrice che ha servito fedelmente per vent’anni si ritrova senza TFR, senza giustizia e con tre procedimenti aperti. La sua storia non è solo quella di un processo, ma di una macchina dello Stato che punisce chi è povero, invisibile, scomodo.

E finché questo potrà accadere, l’Italia non potrà mai dirsi un Paese civile.

 

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