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L’uscita dalla crisi attraverso Keynes

Le notizie che via via si stanno facendo largo sui mezzi d’informazione, specializzati e non, sulla crisi prima denominata dei subprime, poi più comunemente derubricata in “crisi finanziaria”, valgono la pena di essere vagliate da un punto di vista “altro” che non ci limiti alle solite risposte preconfezionate. Per prima cosa, bisogna sottolineare con onestà la criticità crescente della posizione bancaria italiana. Tutte le ultime ed aggiornate informazioni le potete leggere sul sito Lavoce.info. Da queste informazioni appare chiaro che non solo l’Italia non è esente dalla crisi ma addirittura ne soffre e ne soffrirà più degli altri paesi.

Cominciando dal fatto che, dal fallimento di Lehman Brothers, il titolo Unicredit ha perduto il 60% del suo valore e Intesa il 45%, si passa a delineare le cause di tale debacle. Ritardi della ricapitalizzazione delle banche; organi direttivi troppo passivi; troppi intrecci societari e via discorrendo.

Potremmo semplicemente chiudere la discussione dicendo che questo è il sistema nel quale viviamo; se lo si vuole se ne devono accettare non solo le regole ma anche i rischi. Dopotutto esiste una legislazione [sulla eventuale responsabilità bancaria] in merito che va applicata. L’uomo, anche se amministratore delegato di un grosso gruppo bancario o finanziario non è sicuramente esente da errori o approssimazioni.

C’è però dell’altro. Nella foga, coscientemente ipocrita, di volere un sistema che funzioni sempre per il meglio e, possibilmente, senza lasciare “con le pezze al culo” gli investitori (però non abbiamo creato noi la definizione “parco buoi”!), si tenta in tutti i modi di convincere il pubblico che il sistema ha sempre e comunque una via d’uscita positiva e che le crisi si possono evitare….basta stare attenti.

Nulla di più falso: produrre per il profitto - e non è assolutamente vero che la finanza (cattiva) è indipendente e rende un cattivo servizio alla base produttiva (buona e virtuosa) ma ne è semmai l’essenziale stampella - non solo include implicitamente le crisi da sovrapproduzione, le quali a loro volta hanno una ragion d’essere nel sostegno del profitto stesso ma attraverso di esse il mercato si “seleziona”, si “autoregola”, espelle alcuni operatori concentrando il capitale nelle mani di chi alle crisi stesse sopravvive. Essa è una regola sempre attiva anche se non ce ne accorgiamo se non nei momenti più bui, cioè quando i giochi si fanno duri e ne risente pesantemente la collettività.

Sotto questo punto di vista mi sentirei addirittura di difendere l’operato di coloro che oggi sono sotto il tiro di tutti; sotto il tiro di coloro (la stampa) che fino all’altro ieri intessevano le lodi di quei manager a capo dei nostri colossi bancari, dedicando loro intere paginate agiografiche, senza mai intravvedere la fine ingloriosa delle avventure finanziarie internazionali. Troppo facile attaccare ora, sull’onda di una crisi devastante.



Tuttavia e nonostante tale “stampa” che si fa fatica a considerare nel pieno possesso delle proprie facoltà, in virtù del suo ipocrita e contradditorio atteggiamento, una critica va indirizzata alle azioni del nostro “stato maggiore” finanziario ma anche produttivo. Questa critica, però, deve essere di segno del tutto differente sia da questi signori che vogliono salvare il sistema con gli strumenti del sistema che ha fallito, raccontandoci la storiella secondo cui il sistema può essere fatto funzionare perfettamente, magari mettendoci alla guida le persone proposte...da quegli organi d’informazione, sia da coloro che - con superficialità - da sinistra invocano uno stato sociale più efficiente, trattandosi, almeno per ora, di redistribuire la ricchezza in modo da far ripartire i consumi e quindi la macchina produttiva. Insomma, quello che farà Obama (vedremo come e in che misura) e sta già facendo il governo cinese.

Basterebbe ricordare a costoro che anche la destra si sta muovendo con decisione verso un nuovo sistema di welfare (vedi Tremonti) che magari non sarà quello del “bengodi” che tutti vorremmo, ma che comunque dovrà essere in grado di attutire la crisi nel complesso del corpo sociale. Ed è ciò che ormai tutti evocano, indipendentemente dal linguaggio usato e dallo schieramento politico. Ed è sicuro che, essendo la sinistra cacciata lontano dalle leve del potere, il nuovo contratto sociale sarà partorito proprio dalla destra.

Io, al contrario, faccio un’altra proposta: invece di preoccuparci di redistribuire la ricchezza perchè non ci occupiamo di cambiare completamente il modo di produrla? Svincolandola cioè dal profitto? Non si tratta di una posizione morale, tutt’altro. Dico questo innanzitutto perché anche il settore statale produce, in ultima istanza, entro la cornice delle regole per il profitto ma - soprattutto - perché l’applicazione delle regole keynesiane rischia - oggi - di preparare una crisi ancora più violenta domani.

I meccanismi di fondo, come vedremo più avanti, rimangono inalterati.
Il New Deal di Roosvelt esprime politiche di intervento dello stato che appaiono, ai più ingenui, come risolutorie dei contrasti sociali da una parte (grazie ai sussidi statali) sia dei fallimenti delle imprese attraverso il credito garantito. Al tempo stesso lo stato si inserisce nell’economia con opere pubbliche e rilevazione delle imprese.

Ma l’intervento dello stato non può invertire la dinamica della tendenza alla caduta del saggio di profitto. E’ possibile che la rallenti nel breve periodo, attraverso l’accelerazione del processo di concentrazione del capitale verso il monopolio. Ma sul lungo periodo la tendenza ripartirà a causa dell’intervento sempre più pressante dello stato, il quale determinerà un incremento continuo della tassazione del capitale che verrà reinvestito progressivamente sempre di meno nel campo della produzione. Allo stesso tempo le entrate dello stato a sfavore del capitale saranno utilizzate nel settore pubblico garantendo salari senza realizzazione di profitti. Obiettivo dello stato è quello di sostenere l’economia del settore produttivo come volano che favorisca il consumo di massa, stimoli la produzione e perciò la ripresa. Ma è un errore considerare la dinamica delle crisi e la loro possibile risoluzione solo dal lato del consumo e non da quello della produzione, poichè a lungo andare il meccanismo determina un continuo deficit pubblico a spese del capitale e dei lavoratori. Fino a che punto sarà tollerabile?

E non dimentichiamo che, grazie alle politiche keynesiane di stimolo al consumo, dopo la crisi del ‘37, gli USA vedono lo sviluppo dell’industria bellica che porterà inevitabilmente alla partecipazione alla seconda guerra mondiale.

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