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L’incubo nucleare continua: l’Arabia Saudita costruirà 16 reattori. Solo per scopi civili?

Consapevoli che le rendite petrolifere non dureranno per sempre, da tempo i paesi della penisola arabica stanno prendendo in considerazione il tema della diversificazione in chiave energetica.

Lo ha fatto anche l'Arabia Saudita, che questa settimana ha reso pubblico un progetto che prevede la costruzione di 16 reattori nucleari civili entro i prossimi vent'anni, per un costo complessivo di 300 miliardi di rial (circa 80 miliardi di dollari). Benché il programma di differenziazione saudita preveda anche un intenso investimento sulle fonti rinnovabili, nei piani di Ryadh risalta la predominanza dell'atomo sulle altre fonti.

Martedì Abdul Ghani Malibari, coordinatore presso l'Agenzia nucleare saudita, ha annunciato che il regno avrebbe lanciato una gara internazionale per la realizzazione dei nuovi reattori. "Dopo 10 anni avremo i primi due reattori,” ha dichiarato il funzionario in occasione del Forum per l'Ambiente del Golfo tenuto a Gedda. “Dopo di che, ogni anno ne entreranno in funzione altri due, fino ad arrivare a 16 entro il 2030". Malibari ha precisato che i reattori coprirebbero circa il 20% del fabbisogno di energia elettrica in Arabia Saudita. In febbraio il regime di Ryadh ha firmato un accordo di cooperazione con la Francia per lo sviluppo pacifico dell'energia nucleare, dopo aver firmato un accordo simile con gli Stati Uniti già nel 2008. è inoltre in trattative con la Russia per lo stesso scopo.

Lo scopo del programma è generare energia elettrica per soddisfare il crescente fabbisogno interno nonché per alimentare gli impianti di dissalazione dell'acqua di mare. Ryadh ospita un quarto degli oltre 7500 impianti nel mondo, con quasi 3 miliardi di litri d'acqua potabile prodotti ogni giorno.

Per l'Arabia Saudita l'approvvigionamento idrico è fondamentale anche più di quello energetico. Di fronte alle perturbazioni provenienti dai paesi limitrofi, garantire l'acqua è tutti i cittadini è per la Casa di Saud una priorità per arginare una possibile ondata di proteste popolari.

La possibilità di ricavare acqua dolce dal mare è la soluzione tecnologica che in un futuro prossimo potrebbe risolvere la crisi idrica mondiale. Negli ultimi anni il fabbisogno idrico in Medio Oriente è aumentato in misura considerevole ed anche per questo i paesi arabi hanno anticipato l'Occidente nello sviluppo delle tecniche di dissalazione. Tale processo, che sostanzialmente consiste nella rimozione dei minerali disciolti nell'acqua di mare, non è eccessivamente complesso ma comporta costi elevati. Considerato che il costo reale del processo è di 4 dollari al metro cubo, appare evidente quanto sia pressante, per l'Arabia Saudita, l'esigenza di garantirsi una fonte energetica continua e a bassi consumi per incrementare il volume della dissalazione.

Per quanto animato da nobili intenti, il programma nucleare saudita presenta risvolti inquietanti.

La repentina decisione di Ryadh di affidare il proprio futuro energetico all'atomo, specialmente nell'attuale periodo post Fukushima in cui il resto mondo si interroga sull'opportunità di mantenere una fonte energetica così foriera di rischi, potrebbe sottendere altri obiettivi.

La Casa di Saud è molto preoccupata dai progressi nucleari del vicino Iran. Molto più dell'Occidente e dello stesso Israele, consueto bersaglio delle minacce di Teheran. Lo scorso anno le centrifughe iraniane hanno raggiunto la capacità di arricchire l'uranio al 20%, mentre per il suo utilizzo ad uso civile basterebbe un livello del 4%. Un elemento circostanziale che depone (inequivocabilmente, a detta di tutti) in favore dell'idea che il programma nucleare iraniano persegua scopi tutt'altro che civili.

A dispetto di ciò che i media raccontano da anni, la Repubblica Islamica non vuole davvero la bomba atomica. Ciò che le interessa è ottenere la capacità atomica, ossia il know how per poter costruire MDA (armi di distruzione di massa) da montare delle testate dei propri missili. A quel punto, la scelta di produrre di una bomba dalla sera alla mattina dipenderebbe da una mera scelta politica. Una prospettiva che moltiplicherebbe per mille il peso internazionale della Repubblica Islamica, assicurandole un'impareggiabile influenza sulle vicende politiche in seno al Golfo Persico. E sulle cospicue ricchezze energetiche che la regione contiene.

Per riequilibrare uno scenario per essa inaccettabile, la Casa di Saud starebbe quindi muovendo i primi passi per bilanciare la (prossima) capacità nucleare dell'Iran.

Dato che la domanda non è più se, ma quando l'Iran farà trapelare (senza dirlo apertamente) di aver conseguito l'arricchimento dell'uranio al 90% (livello necessario per scopi militari), interrompendo così il monopolio nucleare di Israele nella regione, il vero quesito da porsi diventa un altro: chi sarà il prossimo?

Se i due principali attori del Medio Oriente intendono dotarsi della tecnologia atomica, c'è il rischio che anche le altre potenze (Egitto e Turchia in primis) decidano di muoversi sulla stessa strada. E un Medio Oriente nuclearizzato è un incubo che in Occidente nessuno vorrebbe mai veder realizzato.

Fino a ieri anche gli paesi arabi hanno cercato con tutti i mezzi di allontanare lo spettro della proliferazione. Pensiamo all'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (IAEA): per anni si è impegnata più di ogni altro Stato o organismo internazionale nel tentativo di smascherare i giochi segreti di Teheran, eppure oggi la sua posizione sembra essere fatta meno intransigente. Probabilmente perché fino allo scorso anno l'incarico di presidenza è stato ricoperto da El Baradei, egiziano, dunque vicino alle posizioni di Ryadh nonché direttamente interessato, come il suo Paese d'origine, a che il programma nucleare iraniano non andasse in porto.

L'America non potrà fare molto. Pur avendo solidi (ma ancora per quanto?) legami con Ryadh, la Casa Bianca non sembra possedere gli strumenti né il carisma indispensabili per impedire la proliferazione.

Gli Stati Uniti hanno un bisogno vitale di mantenere saldi i legami con i sauditi, pena una crisi energetica che darebbe il colpo di grazia alla già claudicante economia dello zio Sam. L'unica possibilità di impedire la proliferazione è arrestare i progressi nucleari di Teheran, ma finora il presidente Obama, come già il suo predecessore, sembra aver trovato la chiave di volta della questione – senza ricorrere alle maniere forti, s'intende.

L'ultimo round di sanzioni contro Teheran non sta dando i (reali) frutti sperati, cioè la sollevazione della popolazione contro il regime. L'Onda Verde che due anni fa aveva colorato le strade del Paese sembra essersi sbiadita. L'Iran è ad oggi l'unico Paese del Golfo Persico in cui non sono in corso rivolte. Al punto da permettersi il lusso di soffiare sul fuoco delle rivolte altrui, come in Bahrein o in Azerbaijan. L'instabilità istituzionale dovuta ai dissidi tra il presidente Ahmadi-Nejad e buona parte delle gerarchie sciite è compensata dalla generale ostilità dell'establishment verso l'Occidente e gli Usa in particolare, per cui neppure n eventuale golpe sembrerebbe offrire una svolta alle frustrate speranze del fronte israelo-americo-saudita.

Aldilà dell'antipatia per l'Iran e l'amicizia (di facciata) con l'Arabia Saudita, l'America è consapevole che il regime di Ryadh è molto più autocratico, fondamentalista e primitivo di quello di Teheran. La prospettiva che anche la Casa di Saud avrà la teorica possibilità di cancellare intere metropoli premendo un bottone non lascerà dormire sonni tranquilli alla Casa Bianca.

E a tutti noi.

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