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L’eterna pulizia etnica di Israele

C’è una guerra che Israele ha sempre praticato, addirittura prima di nascere ed essere riconosciuto come Stato, quella agli abitanti di Palestina. 

Gli effetti maggiori di questa guerra eterna non erano soltanto le enunciazioni ottocentesche del padre del sionismo Theodor Herzl; né gli assalti ai villaggi arabi organizzati e realizzati dai gruppi paramilitari (l’odierno teoricamente corretto direbbe terroristi) dell’Haganah che interpretava la difesa insita nel nome atterrendo i palestinesi; e neppure la vicinanza o la militanza che taluni padri della patria ebbero coi crimini delle bande Irgun e Stern. Quel che è avvenuto dal 1947 in poi – dearabizzare la Palestina – deflagra più d’ogni bomba tuttora sganciata sulle ultime generazioni palestinesi. Certo, parlare di Storia e degli sviluppi delle micro storie a essa legate può risultare ingombrante e noioso. Così il panorama dell’informazione e dello stesso approfondimento è disposto a spingersi indietro d’una decina d’anni o giù di lì. Quando a Gaza Hamas prendeva il potere mitragliando Fatah, spiegando che trattasi di faide interne alla politica palestinese che aveva ricevuto poco prima (2005) l’autogestione della Striscia di Gaza grazie alla caparbietà del generale e poi premier che l’aveva sgombrata da esercito e coloni. Quell’Ariel Sharon comandante in Libano ai tempi dell’occupazione che chiudeva gli occhi davanti al massacro falangista di Sabra e Shatila. Ecco, abbiamo già fatto un saltino indietro di quarant’anni, parlando di campi profughi, l’unica patria che Israele concede ai palestinesi espellendoli dalla Palestina. Quest’effetto crea più vittime di quante ogni conflitto, imposto o subìto, da Israele va sommando decennio dopo decennio.

Gli 800.000 palestinesi fuggiti a seguito della tragica ‘catastrofe’ del 1948 pesano nelle vicende di questo popolo come un macigno perché costituiscono l’allontanamento dalla propria terra che il sionismo teorizzatore di Israele considerava vuota. Quella regione che vuota non era, ma che fu ‘alleggerita’ dalla presenza araba compiendo massacri come a Deir Yassin e decine di piccoli villaggi, consentiva all’Agenzia Ebraica e quindi a Israele di attuare il presunto socialismo kibbutzino, segnato dal potente marchio nazionalista, e correlare il proprio stabilirsi in quei luoghi alla cacciata dei palestinesi. Questa pulizia etnica somma l’emarginazione degli attuali arabi di Israele (1.900.000 cittadini colpiti nei diritti basilari, sfavoriti e sottopagati nel lavoro, piegati da umiliazioni, trasferimenti forzati, detenzioni amministrative, soggetti di fatto ad apartheid, nonostante quel che dicano i frequentatori dei salotti televisivi d’un Occidente dalla visione univoca) alle angherie rivolte agli abitanti della Cisgiordania (circa tre milioni, privati del proprio spazio vitale con tutto quel che si sa: la separazione fisica dei settecento chilometri di Muro, l’esproprio di terreni e l’abbattimento di case, l’insediamento di oltre mezzo milione di coloni nell’area riconosciuta a un presunto Stato Palestinese). Fino ai più bersagliati di tutti: i 2.3 milioni di palestinesi della Striscia, che nella sua presunta guerra contro Hamas, Israele vuol azzerare all’essenza di esiliato a vita, come all’epoca della Nakba. Una pulizia etnica che di recente la Comunità internazionale ha deciso di far sopportare ai 120.000 abitanti del Nagorno Karabakh riparati a ranghi quasi completi in Armenia. Con qualche mal di pancia dei politici di Erevan, ma con uno sviluppo in corso, cosa impossibile per i gazesi che né Egitto né Arabia Saudita accetteranno, nonostante le illazioni diplomatiche lanciate in queste ore. Israele sta rioccupando mezza Striscia da cui espelle un milione di cittadini che s’ammassano sull’altro milione disastrato nei venti chilometri che restano a loro. Per quanto non si sa. Mentre i fratelli della Cisgiordania sono avvertiti, il loro turno arriverà. A spingerli fuori, insieme all’Idf, è pronto un altro mezzo milione di coloni.

Enrico Campofreda

 

 

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