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L’economia mondiale è in buona salute?

Uno dei motivi per cui i tassi d’interesse sono stati ridotti praticamente a zero a seguito della crisi finanziaria è stato il tentativo di incoraggiare le imprese e gli stati a investire, in modo da rilanciare l'economia reale.

Nei seguenti due grafici, tratti dall’OECD Economic Outlook update di novembre 2015, si possono esaminare l’andamento nel tempo della crescita annuale del PIL (GDP) e della domanda annuale per beni di investimento in capitale fisico; il tutto in termini reali e nelle economie più avanzate (per gli investimenti, con riferimento fissato a 100 nel primo trimestre del 2008).

Fonte: OECD Economic Outlook 2015, update novembre 2015

 

Questi grafici spiegano che il problema dell’economia mondiale, da diversi anni, è la mancanza di domanda – si noti che il valore di crescita mondiale è dal 2011 stabilmente inferiore alla media 1995-2007 (linea tratteggiata rossa nel primo grafico) - e, in particolare, di domanda di beni d’investimento, che determinano nel medio/lungo periodo il potenziale di crescita. Senza investimenti, nessuna economia può crescere in modo duraturo.

Nel 2015, a poco più di sette anni dalla crisi, iniziata nel 2008, gli investimenti annuali nell’area euro sono stati del 15% inferiori rispetto al 2008 e anche in Giappone si è osservato un valore inferiore, del 4%. Le economie di rilievo che sono cresciute nel 2015, gli USA e alcune economie dell’OECD con forti esportazioni di materie prime, mostrano un valore di domanda per beni d’investimento più alto nel 2015 rispetto al 2008, ma soltanto del 5% e del 10%, rispettivamente.

I sintomi della cattiva salute dell’economia mondiale sono molteplici. Per esempio, ci si chiede come mai non ci sia inflazione negli Stati Uniti nonostante il quantitative easing messo in atto dalla FED nel recente passato, perché il quantitative easing in area euro non abbia raggiunto i risultati sperati sui prezzi e come mai il Giappone sia di nuovo sull’orlo della deflazione nonostante la recente aggressività della politica monetaria della sua banca centrale.

La mancanza d’inflazione indica scarsità di domanda rispetto all’offerta. Per quanto non sia ancora tutto noto e compreso sull’inflazione[1], qualcosa sappiamo: non è bene averne troppa, ma neanche troppo poca.

 

L’austerità in Europa ha contribuito ad aumentare i rapporti debito pubblico/PIL di tutti gli Stati che l’hanno adottata (Italia inclusa), a causa della diminuzione del denominatore (PIL) che essa causa, e ovviamente ha ridotto la domanda. Uniamo a questo fatto la riduzione di domanda tipica dei periodi di deflazione, la riduzione degli investimenti delle società petrolifere a fronte del basso prezzo del petrolio, la mancata riconversione negli Stati Uniti degli impianti energetici verso lo shale gas (uno degli scopi che si è prefisso chi continua a inondare il mercato di petrolio), dove si arriva?

Incredibilmente, si arriva a identificare la Cina come il problema. D’accordo è cresciuta nel 2015, rispetto all’anno precedente, <<solo>> del 6,9% in termini reali (per completezza, aggiungiamo che il mercato teme che questo dato non sia reale), ma la sua economia è molto più ampia in termini assoluti di quando cresceva al 10% o al 12% anno su anno e, inoltre, sono decenni che si sa (dal famoso articolo di Solow nel 1956[2]) che l’accumulazione di capitale porta sia rendimenti decrescenti sia una riduzione della velocità della crescita.

Prima si dice <<La Cina deve ribilanciarsi verso i consumi, investe troppo un po’ come Stalin fece in URSS negli anni ‘30>>, ma quando questo finalmente succede, come è successo, portando a una crescita più modesta, si dice <<Ecco, il problema è che la Cina non cresce più come una volta>>.

 

Ma perché crescere? E’ così importante? Sì, purtroppo sì. Descriviamo un’economia che potrebbe non crescere: dovrebbe essere poco indebitata, avere alta fertilità, abbondanza di materie prime, un reddito pro-capite reale ritenuto soddisfacente da tutti i suoi cittadini e distribuito in modo da non avere fenomeni di povertà e cittadini che non vogliano progredire ulteriormente in termini di aspettativa di vita, prodotti disponibili e così via. Un esempio? Forse la Norvegia che, nel panorama mondiale, è un’economia molto piccola.

 

Altri segnali del malessere dell’economia mondiale esistono ma non sono diffusi a sufficienza. Non sentiamo molto parlare della situazione dei fondi pensione. Si pensa forse che i tassi d’interesse bassi siano uno strumento senza controindicazioni? Certo, rendono meno costoso prendere a prestito per investire, ma non incentivano sicuramente a prestare denaro. Se tutti vogliono prendere a prestito, non vediamo grandi possibilità per realizzare investimenti. Per essere chiari: riteniamo i tassi d’interesse attuali troppo bassi, inclusi quelli sul debito pubblico italiano.

 

Inoltre, preoccupa la diffusa (e assurda) idea che si possa/debba crescere grazie alle esportazioni. Possiamo essere tutti esportatori netti? Speriamo sia chiaro che la risposta è no. In altri termini, in presenza di anche soltanto un esportatore netto (cioè un’economia che esporta più di quanto importa), deve esistere almeno un importatore netto cioè un’economia che importa più di quanto esporta). E’ un gioco a somma zero: non possiamo tutti esportare più merci di quante ne importiamo (magari quando colonizzeremo Marte sarà possibile, ma non ora). Al contrario, tutte le economie possono crescere contemporaneamente grazie agli investimenti. Non ci sembra una differenza da poco.

 

I mercati (cioè noi stessi) non hanno, comprensibilmente, molta voglia di finanziare investimenti con dei tassi così bassi. Bene, è per questa ragione che da molto tempo si è deciso di organizzarsi in comunità, che oggi chiamiamo stati e che abbiamo dotato di banche centrali. Quando noi cittadini, presi singolarmente come privati, non scambiamo a sufficienza beni e servizi e/o non finanziamo investimenti, lo stato (sempre noi, ma tutti insieme) dovrebbe farlo per compensare. Oggi, purtroppo, si diffonde sempre più l’idea che gli Stati si debbano ritirare perché l’economia funzioni e che il mercato, qualunque siano le sue decisioni e valutazioni, abbia sempre ragione. Pura ideologia, ci sono molteplici ragioni teoriche e pratiche che giustificano l’intervento pubblico in economia[3].

 

Con tassi così bassi e tanta incertezza, e sull’orlo della deflazione in molte aree, gli stati possono investire pesantemente, con l’aiuto delle banche centrali. Non pare valida l’idea che non ce ne sia bisogno: gli USA, l’area euro – ex Germania est inclusa - e l’Africa sono tutte Economie che manifestano forti obsolescenze di capitale (aeroporti, autostrade, laboratori, scuole, edifici pubblici, musei, monumenti). Se non investiamo adesso attraverso lo stato, quando dovremmo farlo? Né sembra valida l’idea che non si possa fare per problemi di indebitamento: gli investimenti sono la chiave per la crescita, condizione essenziale per la riduzione dell’indebitamento in quota al PIL. Il debito, se non rapportato al PIL, è privo di significato e incomparabile con altri debiti, come anche i deficit.

 

Se si ha paura dell’inflazione che potrebbe derivare dalla nuova moneta (a parte la consapevolezza che per una banca centrale è molto più difficile innescare l’inflazione che arrestarla e il fatto che non è un problema di breve), facciamo notare che un po’ d’inflazione potrebbe essere un aiuto (per quanto di breve durata) per le economie a uscire dal guado, in particolare stimolando i consumi e, come aspetto secondario e da non avere come obiettivo – o parleremmo di un esproprio -, riducendo l’onere del debito in attesa del rinvigorimento della crescita. Invece, si pensa diffusamente, meglio crescere esportando come fa la Germania (cioè risparmiando più di quanto si investa). Niente contro la Germania: è la politica sociale ed economica europea che sta fallendo. Olivier Blanchard[4] è arrivato a proporre di elevare il target di inflazione della BCE al 4%, e, riguardo al Giappone, di elevare i salari nominali di ufficio del 4 o 5% per stimolare l’inflazione.

 

Un altro evidente segnale di malessere è la lentezza della ripresa mondiale, e le sue ripercussioni sulle aspettative. Se le imprese e gli investitori non si aspettano crescita, si abbasserà il ritorno previsto per ogni progetto che ritengano utile intraprendere. Anche se il costo di finanziamento si è ridotto, il numero di progetti potenzialmente redditizi non può di certo essere aumentato.

 

La domanda mondiale è cambiata come aveva previsto Engel[5]. Ci vuole un elevato capitale per costruire una fabbrica di turbine aeree, non tanto elevato per la progettazione di un videogioco o di un’app per i cellulari. Forse, allora, non dovremmo preoccuparci della riduzione della domanda per investimenti? La preoccupazione resta perché le nuove industrie potrebbero non creare tanti posti di lavoro quanto le fabbriche di turbine aeree, nel breve termine. E, prima di godere dell’aumento di domanda dovuto al progresso tecnologico (domanda detta shumpeteriana), potremmo quindi passare guai seri di breve in termini di occupazione e, quindi, benessere.

 

Abbiamo fatto grandi progressi ma non dove avremmo dovuto. La mobilità è ancora problematica, la fame nel mondo, per quanto in riduzione, è ancora un dramma soprattutto per i bambini, la disuguaglianza tra gli individui cresce da alcuni anni[6] e così la criminalità, l’odio tra i popoli e il terrorismo. Un’economia mondiale in cattiva salute non potrà che peggiorare le cose.

 

Questa breve e certamente grossolana analisi rafforza, quindi, l'argomento della "stagnazione secolare" di Summers[7]. Riteniamo che la ragione principale, oltre ai preoccupanti dati demografici, sia che quando si arriva a ritenere (lo fanno i mercati) che sia meglio avere gente che non lavora rispetto a farla lavorare, ponendo problemi di debito, ci sia poco da sperare.

 

Un altro problema è che l’austerità è subdola e seducente. Chi potrebbe negare che una famiglia che spende più di quanto incassa deve ridurre le sue uscite o andrà in malora (non potendo prendere a prestito indefinitamente nel tempo)? Tuttavia, se la stessa domanda fosse posta per uno stato, sarebbe altrettanto ovvio essere d’accordo?

 

Larry Summers ha fatto il seguente esempio: supponiamo che un conferenziere stia parlando in pubblico in una sala molto vasta, per esempio in cui l’ascoltatore più lontano sia a oltre duecento metri di distanza dal palco. Questo spettatore potrebbe volere alzarsi per sentire e vedere meglio. La fatica dello stare in piedi ridurrà l’aumento di benessere che egli trarrà da questa azione, ma egli potrebbe in ogni caso ritenere il suo bilancio di benessere in positivo. Nessuno nella sala verrà disturbato da questo, quindi tutti vedranno e sentiranno come prima tranne lo spettatore in piedi che vedrà e sentirà meglio (e sopporterà lo stare in piedi essendone, al netto, soddisfatto). Quindi le cose sono migliorate per lui e sono restate immutate per tutti gli altri.

 

Ora supponiamo che tutti si alzino in piedi. Nessuno sentirà né vedrà meglio di prima e tutti saranno più affaticati a causa dello stare in piedi. Tutti, quindi staranno peggio di prima.

 

In economia, se un singolo stato riduce la sua spesa, potrebbe (ripetiamo potrebbe) migliorare la sua situazione, per quanto permangano diversi dubbi sulla fattibilità di ridurre i deficit riducendo la spesa, ma se tutti gli stati risparmiano, la situazione di ogni stato peggiorerà sicuramente. Inoltre, gli Stati hanno vita attesa infinita, non di 78 o 83 anni come gli uomini e le donne. Queste due semplici argomentazioni dovrebbero ricordare che l’unico modo sensato di ridurre i deficit è la crescita. E che indebitarsi per uno stato non è la stessa cosa come per una famiglia.

 

Per concludere, finché la dottrina in auge in Europa sarà che bisogna ridurre i deficit quando l’economia va male, mentre i deficit possono essere accettati quando l’economia va bene, non usciremo mai dal guado. Sappiamo tutti (i dotati di un minimo buon senso economico) che quando l’economia va male i deficit sono un buon segnale (come la febbre) perché rappresentano una reazione. Chiaramente, con un’economia in crescita tali deficit devono diventare dei surplus per mantenere le finanze pubbliche in un sentiero sostenibile nel lungo periodo. Pensare di “stringere” quando l’economia è in difficoltà è un ossimoro economico: le cose andranno ancora peggio (vedi la Grecia); allo stesso modo, tollerare i deficit quando l’economia cresce è un’apologia delle bolle finanziarie.

 

I mercati emergenti hanno dato alla crescita mondiale sostegno per molti anni. Ora che hanno subito un rallentamento, chi li sostituirà?

 

[1] Romer / Advanced Macroeconomics (2006)

[2] Solow / A Contribution to the Theory of Economic Growth (1956)

[3] Bosi / Corso di Scienza delle Finanze (2015)

[4] Blanchard et al. / Rethinking Macroeconomic Policy (2010)

[5] Engel / Die Lebenskosten Belgischer Arbeiter-Familien Früher und Jetzt (1895)

[7] Summers / Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound (2014)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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