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L’assistenza sessuale per disabili

L’assistenza sessuale per persone diversamente abili sconta ancora molti tabù. Loris Tissino e Nicola Zanolin affrontano il tema sul numero 4/2024 di Nessun Dogma con interviste a Maximiliano Ulivieri fondatore dell’associazione LoveGiver, e al regista Carlo Zoratti, autore del film The Special Need.

 

 

È dal 2012 che l’Uaar si occupa, anche se solo indirettamente, di formazione di assistenti sessuali per disabili, dapprima parlandone in un post del proprio blog (Sesso e disabilità, un tabù al quadrato)1 e poi, in occasione del congresso 2013, inserendola tra i propri obiettivi.

In questa dozzina di anni si sono mosse diverse cose, ma purtroppo la questione rimane ancora problematica sotto molti punti di vista. Tra le famose “radici cristiane” del nostro Paese, infatti, quella legata alla sessuofobia è forse una delle più rilevanti. Le attività sessuali, se non collegate esclusivamente al fine riproduttivo, sono state per secoli (e lo sono ancora oggi, per certi versi) considerate peccaminose e quindi non degne di considerazione positiva.

La rivoluzione sessuale avviatasi a partire dagli anni sessanta ha cambiato un po’ la situazione, che però è rimasta critica soprattutto in relazione ai casi in cui vi è un collegamento con un altro tipo di problema: quello della disabilità (o, come oggi si preferisce dire, della diversabilità).

La questione è certamente complessa, perché si dovrebbe tenere conto di molti fattori. Innanzitutto, molte persone con disabilità fisiche hanno difficoltà ad accedere a spazi e servizi per la sessualità (ad esempio strutture adeguate, strumenti e ausili, eccetera), o perché fisicamente impossibilitate (si pensi all’impossibilità di muovere degli arti) o per una più semplice questione di riservatezza. Anche la semplice masturbazione è molto spesso tecnicamente impossibile.

In secondo luogo, le persone con disabilità vengono spesso viste come asessuate e asessuali o incapaci di avere relazioni intime, degli eterni Peter Pan che non si vedono crescere e cambiare. Andrea Mannucci, nel suo libro La sessualità della persona diversabile2, dice: «Si è pensato per molto tempo – e forse qualcuno lo pensa ancora – che una persona che ha l’intelligenza cognitiva di un bambino di sette anni, abbia realmente sette anni, anche se ne ha trenta o quaranta. Se fosse così la sua sessualità sarebbe fortemente limitata o comunque dimensionata all’età mentale. Ma quella persona non è un bambino».

Il terzo aspetto è quello del supporto, spesso carente, sia alle persone diversabili sia ai loro familiari e a chi è loro vicino (operatori sanitari, educatori, insegnanti, eccetera): sarebbero necessarie educazione, formazione, vicinanza, comprensione dei tanti punti di vista del problema.

E consapevolezza del fatto che la sessualità non è riconducibile esclusivamente al rapporto sessuale “genitale”, completo e penetrativo, ma è fatta di una serie di sfumature che passano per la consapevolezza del proprio corpo, il dialogo, il contatto fisico con sfioramenti, carezze e massaggi, l’uso di “giocattoli erotici” (vibratori, ausili per la masturbazione e molti altri), anche se non necessariamente deve valere l’accoppiamento sesso/affetto.

Una legislazione in merito in Italia ancora manca. Sarebbe naturalmente auspicabile, al fine di fornire un quadro di riferimento chiaro a chi volesse lavorare in questo campo in maniera professionale. Proposte di legge, nelle scorse legislature, ne sono state presentate, ma non sono mai arrivate in discussione.

D’altro canto, educatori, famiglie e associazioni conoscono quanto la sessualità delle, e per, le persone con disabilità sia un tema assai vivo nella quotidianità del lavoro e della vita domestica. Manca spesso un sostegno psicologico ed educativo, manca per molti un sostegno diretto che non può ridursi ai primi due. Il corpo chiama, la mente domanda, il legislatore non risponde e si fa quel che si può.

Le risposte che vengono date a chi non trova luoghi di socializzazione accessibili o viene considerato eterno Peter Pan o non ha assistenza sono spesso sottaciute nel dibattito pubblico: la negazione (che produce al massimo il fenomeno del carsismo sessuale: le pulsioni vengono nascoste, ma continuano a esserci e a lavorare a livello psicologico), il ricorso alla prostituzione, l’aiuto dei familiari nella ricerca e nello sfogo del piacere.

Qualcosa però si è mosso. Il progetto più famoso e strutturato è quello portato avanti dall’associazione di volontariato LoveGiver3, descritto molto bene in un libro intitolato LoveAbility. L’assistenza sessuale per le persone con disabilità4 pubblicato dieci anni fa. Abbiamo chiesto a Maximiliano Ulivieri, fondatore e animatore dell’associazione, di aggiornarci.

Come sono cambiate (se sono cambiate) le cose nel campo dell’assistenza sessuale in quest’ultima decade?

Qualcosina è cambiato. È cambiato soprattutto il termine usato per descrivere la figura dell’operatore formato: non usiamo più “assistente sessuale”, ma parliamo di Oeas (operatrice/tore all’emotività, affettività e sessualità), perché abbiamo visto, nell’organizzazione dei corsi, che definire le persone formate “assistenti sessuali” ci sembrava un po’ limitante. Definirli con questo acronimo ci sembra più rappresentativo di quello che poi in realtà imparano durante questa formazione e di quello che poi è anche l’obiettivo, che è di curare anche l’aspetto emotivo e affettivo della persona, non soltanto l’aspetto della sessualità.

Dal 2013 il comitato di LoveGiver è diventato un punto di riferimento per la formazione degli Oeas. È stato elaborato un ricco programma formativo e un codice etico5 degli operatori. Quanto ai numeri, sono oggi “in servizio” 25 Oeas in Italia, anche se la formazione è stata per un numero maggiore di persone. Del loro lavoro c’è estremo bisogno, e lo testimonia il numero consistente e costante di richieste che ci arriva, ogni settimana, da tutte le parti d’Italia.

Esiste, o dovrebbe esistere, un “diritto alla sessualità”, come cosa separata e diversa rispetto alla “salute sessuale” di cui si parla nelle diverse convenzioni internazionali?

Sì, ma bisogna intendersi su che cosa si intende per “diritto alla sessualità”, che per me si ottiene quando vengono abbattute tutte le barriere, fisiche e culturali, che non permettono di vivere in maniera autonoma la propria sessualità (ad esempio vivendo luoghi di aggregazione o comunque dove normalmente la gente si incontra) o condizionano il modo di pensare e di percepire la bellezza e l’accettabilità dei corpi.

Il codice etico che avete elaborato rende molto chiara la differenza tra il lavoro/ruolo dell’Oeas rispetto a quello dei caregiver (infermieri, educatori, eccetera) da un lato e di sex worker dall’altro. Il fatto di aver introdotto anche il tema dell’emotività e dell’affettività probabilmente aiuta in questo. Vi siete mai scontrati con difficoltà nel tenere distinta la figura dell’Oeas dalle altre?

Le difficoltà le troviamo, certo, ma soprattutto quando le persone non vogliono ascoltare. Il giudizio parte spesso prima della spiegazione e fa sì che quest’ultima non venga recepita. Una cosa importante da sottolineare è che non c’è una scala di valori: non è che l’Oeas sia più o meno importante di un/una caregiver o di un/una sex worker.

Semplicemente, gli obiettivi sono diversi: l’Oeas vuole portarti ad avere autonomia e indipendenza; il/la sex worker invece tende a fidelizzare il cliente, perché vuole che ritorni. Un’altra differenza è quella del target: mentre l’Oeas si occupa di persone con disabilità fisiche, intellettive o dello spettro autistico, nel sex work ci si occupa di chiunque chiami.

L’educazione e la gestione della sessualità attraversa tutta l’identità psicosessuale delle persone, dall’orientamento sessuale alle inclinazioni personali, dalla contraccezione alla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili, dalla difficoltà di comunicazione con metafore e termini allusivi (così comuni tra le persone neurotipiche ma che portano a evidenti difficoltà ad esempio nei casi di persone che si collocano nello spettro dell’autismo) alla definizione di contesti in cui determinate cose (baci, carezze, abbracci, esposizione di parti intime del corpo, masturbazione, atti sessuali, eccetera) sono consentite o meno, anche ai fini di prevenire e individuare abusi6. Quanto si riesce a tenere presente tutti questi aspetti nei corsi di formazione? Quali sono le difficoltà maggiori che si riscontrano nell’affrontarli?

Abbiamo docenti estremamente preparati, anche nella gestione di persone dello spettro autistico, che tra l’altro costituiscono una parte numerosa delle richieste che ci pervengono. I casi però possono essere molto complessi e diversi tra loro e non sempre si riesce a essere d’aiuto, purtroppo. A volte gli obiettivi dei genitori non sono concretizzabili, perché partono da una immagine anch’essa stereotipata di che cosa debba essere la felicità per i propri figli e per le proprie figlie, e noi cerchiamo di fare invece un lavoro cercando di capire quale sia la felicità desiderata dai figli e dalle figlie, non basandoci su quella desiderata dai genitori.

Come vedi il futuro?

Non è che io abbia mai pensato che ciò che proponiamo sia la soluzione di tutti i problemi. Anzi, quando me lo chiedono di solito rispondo che mi auguro che la figura dell’Oeas non esista più perché non ce ne sarà più bisogno, ma mi rendo conto che questo è difficile perché le situazioni sono a volte veramente complicate. D’altronde, il mondo della sessualità non è senza problemi anche per le persone che non hanno disabilità. L’importante è riuscire a offrire una gamma di possibilità tra cui scegliere.

Mi auguro che un giorno anche la professione dei sex worker sia regolamentata e che sia possibile offrire formazione anche a loro sulle questioni della disabilità, perché non è detto che tutti vogliano cercare le relazioni, l’amore, eccetera: magari alcune persone hanno solo voglia di vivere le proprie fantasie e i propri desideri in maniera consensuale e sicura con altre persone che lavorano nel settore. Recentemente, per fare un esempio, si è sviluppato anche un nuovo progetto, Disability Hard7, portato avanti da Carmelo Comisi, che si propone di portare la disabilità in modo attivo anche nel mondo della pornografia: perché no?

Uno dei primi film in Italia a occuparsi del tema della sessualità di persone disabili è stato The special need di Carlo Zoratti8, in cui si racconta l’esperienza che un gruppo di amici ha fatto fare a Enea, disabile cognitivo, per l’esplorazione delle sue emozioni, di un corpo altrui, delle relazioni affettive e in qualche modo erotiche. A dieci anni dall’uscita del film, abbiamo fatto qualche domanda al regista.

Che tipo di accoglienza ha avuto il film quando è uscito nelle sale?

In generale positiva, anche perché può essere considerato un film sull’amicizia e sulla crescita personale, al di là del tema specifico trattato. Le famiglie, gli educatori, gli operatori nei centri e i direttori degli stessi, che hanno a che fare con il tema della sessualità in chi ha difficoltà cognitive, naturalmente lo hanno apprezzato anche sotto questo aspetto, ma mi sono accorto, interagendo con alcune persone, che a volte esiste un po’ di ipocrisia: le esigenze vengono comprese, ma poi di fatto si limitano le possibilità di superarle. Ancora adesso il film viene usato da associazioni e gruppi di supporto per presentare l’argomento in occasione di incontri e convegni.

Che reazioni ha suscitato all’estero? Hai notato differenze rispetto all’accoglienza in Italia?

Il film tocca corde comuni nel pubblico in diversi Paesi. Non ho trovato mai una qualche resistenza ideologica o morale, però ho notato che per i tedeschi il tema è meno rivoluzionario che da noi: sono molto più consapevoli e più aperti e la sessualità è vissuta in modo meno privato rispetto all’Italia. In Messico invece mi ha colpito lo sguardo più profondo e filosofico, più consapevole delle condizioni di sofferenza che ogni essere umano si trova a gestire; il pubblico leggeva questa storia connettendola a una propria vulnerabilità e sembrava capire molto bene che cosa significa non essere compresi, non essere liberi, non trovare supporto: la sessualità era vista come un fattore di accelerazione di queste dinamiche.

In questi dieci anni, dopo esserti confrontato con tante realtà in Italia e nel mondo che si occupano di sessualità e disabilità, è cambiato il tuo modo di vedere le cose?

Certamente. Mi rendo conto adesso che il mio modo di vedere le cose era molto limitato. Il film, nato da una storia di mia amicizia personale con il protagonista, racconta di un ragazzo che desidera un rapporto con una donna, situazione che – a parte il fattore disabilità – è “nella norma” della nostra società. Già se a essere protagonista fosse stata una donna che desidera un rapporto con un uomo l’accoglienza sarebbe stata probabilmente diversa. Per non parlare di casi in cui ad avere il problema di gestire la propria sessualità è una persona con orientamento omosessuale o identità di genere diversa rispetto al proprio sesso biologico. Immagino che le famiglie e la società siano ancora restie ad accogliere e accettare in casi come questi: per proteggersi dal giudizio altrui tendono a limitare le libertà di chi ha il problema. Il mio film allora ha spostato il sassolino di qualche millimetro, ma bisognerebbe spostarlo di centinaia di metri, per abbattere tutte le barriere ancora esistenti fatte di giudizi e di timori di essere giudicati. C’è ancora spazio per molti altri film sull’argomento.

Loris Tissino e Nicola Zanolin

Approfondimenti

  1. go.uaar.it/wodc4x3
  2. 2019, editore Franco Angeli, Milano
  3. www.lovegiver.it
  4. 2014, editore Erickson, Trento
  5. www.lovegiver.it/codice-etico
  6. Questi temi sono ben approfonditi nel libro Sessualità e autismo. Guida per genitori, caregiver e educatori di Kate E. Reynolds (2014, editore Erickson, Trento).
  7. go.uaar.it/l7v6pk7
  8. go.uaar.it/qii94b6

 

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