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L’aspetto spettrale del mutamento

Sergio Brancato, Fantasmi della modernità (Ipermedium, Napoli, 2014).

di Adolfo Fattori

Rispondeva così Robert Musil in un’intervista concessa subito dopo l’uscita del primo volume del suo capolavoro, L’uomo senza qualità (1930), uno dei monumenti della letteratura moderna e della cultura del Novecento:

“La spiegazione reale dell’accadere reale non mi interessa. La mia memoria è cattiva. Inoltre i fatti sono sempre scambiabili. Mi interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei dire addirittura l’aspetto spettrale dell’accadere.”

Frasi che tornano in mente leggendo il titolo dell’ultimo lavoro del sociologo napoletano Sergio Brancato, Fantasmi della modernità (Ipermedium, Napoli, 2014), per l’allusione che contengono alla necessità di guardare oltre, meglio, al di sotto della superficie delle cose per coglierne la sostanza profonda, idealtipica. Un’operazione che Musil, contemporaneo di Georg Simmel e Max Weber poteva ben immaginare, e che impregna anche la migliore sociologia contemporanea, in grado di ripensare continuamente ai suoi punti d’arrivo e alle prospettive nuove che si aprono in fasi di forte mutamento sociale.

L’impressione di contiguità fra le parole dello scrittore austriaco e le materie cui fa pensare il titolo del libro di Brancato si conferma leggendolo, a partire dalle riflessioni che il sociologo napoletano conduce sulla figura del fantasma e sulla sua capacità inesauribile di colonizzare gli immaginari, trasformandosi e mutando – grazie, c’è da aggiungere, alla sua natura per definizione immortale.

C’è una caratteristica di fondo, in questo topos dell’immaginario e delle narrazioni che è da mettere subito in primo piano: il fantasma non è stato sempre una figura del terrore e dell’angoscia. Per secoli ha accompagnato e rassicurato gli antichi, quando ancora, seppur con prudenza, gli umani intrattenevano rapporti con un soprannaturale che appariva presente e evidente in tutti gli aspetti della vita. La Modernità rompe questa alleanza, tenta di ricacciare oltre i confini del suo sguardo il sacro, e con esso i suoi araldi. Ma questi hanno la cattiva abitudine di ricomparire davanti agli umani, producendo angoscia e terrore.

E ora che la Modernità ha attraversato il suo crepuscolo e il suo tramonto (cfr. Abruzzese, 2011), e ci proiettiamo verso qualcosa che ancora non sappiamo definire, se non con il prefisso post-, lei stessa ci chiede il conto popolando con il fantasma di sé la nostra immaginazione, le forme che diamo alle nostre narrazioni e alle nostre riflessioni sul tempo che stiamo vivendo, su quel del tutto nuovo (cfr. pagg. 154-161) cui non sappiamo dare ancora un nome.

Per mettere ordine in questa materia, che poi riguarda direttamente la nascita, lo sviluppo e il declino della società e della cultura di massa – e delle nostre identità, almeno per quelli di noi che hanno attraversato la seconda metà del secolo scorso – Sergio Brancato sceglie dei passaggi e delle figure specifiche, delle tappe significative, dei picchi nel percorso novecentesco dei media. Figure a volte della nostalgia, non la nostra, necessariamente, per il passato recente, ma quella che traspariva già, direttamente da queste.

Come nel caso dello streamlining, quel modo di disegnare e progettare oggetti in forma affusolata e dinamica, come nel Flash Gordon di Alex Raymond, ad esempio, a rimandare una nostalgia di un futuro atteso, già quasi presente – o forse il desiderio, tutto moderno, di accelerare la corsa verso un futuro di tecnologie, velocità, potenza…

Ancora, Brancato ragiona sull’impulso forte a controllare e raccontare il passare del tempo, quando ancora non aveva assunto l’andamento labirintico, spiraleggiante, mœbiusiano che sembra aver assunto oggi, attraverso l’analisi di alcuni film per così dire “seriali”, come in Lo spaccone (1961) seguito da Il colore dei soldi (1986), a mostrare il passare del tempo e l’avanzare delle biografie attraverso i cambiamenti nel corpo e nel ruolo del divo Paul Newman; o ancora nella trilogia costruita da François Truffaut attorno al personaggio Antoine Doinel con I quattrocento colpi (1959), poi con Antoine e Colette (1962), per concludere con Baci rubati a ridosso del 1968. In gioco in questi film è lo scorrere delle vite individuali in parallelo con lo scorrere della storia, delle vicende interiori con i grandi sommovimenti collettivi: ancora le biografie si inscrivevano in percorsi in parte prestabiliti, forse scontati, cogenti ma rassicuranti…

Diverso è il quadro che ci si presenta quando ci avviciniamo ai nostri anni. Entrare nella tarda modernità significa sperimentare una dimensione in cui i processi di individualizzazione accelerano, e con essi i processi di produzione di immaginario si “individualizzano”: “Le pulsioni destabilizzanti dei nuovi media – o meglio, dei nuovi paradigmi del sistema dei media – appaiono sempre più caratterizzate da un movimento votato alla personalizzazione dei processi comunicativi laddove la modernità è stata segnata dalle grandi dinamiche omogeneizzanti di formazione del pubblico”.

In profondità, però, continuano ad agire quelle forze nascoste, “spettrali” che nutrono l’immaginario, e che non smettono di produrre figure paradigmatiche, a loro modo simboliche.

C’è uno spettro, quello sì, che continua infaticabile a sussurrare alle nostre orecchie, ed è quello della Morte, spettro che la modernità non è riuscita ad esorcizzare, anzi, forse, ha rafforzato. E che si ripresenta indenne anche alle soglie della postmodernità. Certo, la fiction – prima di tutto la fantascienza – ha cercato di cancellarla, proponendo percorsi verso l’immortalità che hanno preso forma prima nella materialità dei cyborg e degli androidi, poi nella immaterialità della Rete digitale, come nel caso degli “extropiani” citati dallo studioso/sciamano Erik Davis in Techgnosis (1999), convinti che presto sarà possibile trasferire isul Web le nostre coscienze, e così guadagnarsi l’immortalità, ma con risultati inconsistenti…

La morte muta: cambia forma, cambia figura, cambia involucro. Non è più evocata nel fantasma, figura ectoplasmica, immateriale, romantica, ma si incarna nello zombie, figura estrema della morte dopo la morte. Lo zombie è puro corpo, pura materia, pura fame, seppur in decomposizione.

Una delle prospettive del postumano, forse, che si aggiunge alle altre, la sua forma più degradata, ripugnante, ormai solo carne, materia purulenta, in eterna decomposizione, all’opposto della nobiltà immateriale del fantasma – uno dei segni dello zodiaco del nuovo millennio, senz’altro meno accattivante dei replicanti, dei cyborg, dei cloni, nonostante tutto ancora figure dell’ottimismo progressivo del moderno, spettri della nostalgia per un futuro mai stato.

 

Bibliografia

Alberto Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.

Erik Davis, Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 1999.

Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2005.

 

Filmografia

Robert Rossen, Lo spaccone, Usa, 1961.

Martin Scorsese, Il colore dei soldi, Usa, 1986.

François Truffaut, I 400 colpi, Francia, 1959.

François Truffaut, Antoine e Colette, in L’amore a vent’anni, Francia, 1962.

François Truffaut, Baci rubati, Francia, 1968.

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