L’anacronistica linea di Renzi nel rapporto con i sindacati

L’evoluzione degli ordinamenti evidenzia una progressiva incapacità dei parlamenti e dei governi nazionali di disciplinare, da soli, le relazioni socio-economiche di una realtà sempre più complessa. Ma la linea adottata con i sindacati nella gestazione della riforma del mercato del lavoro mostra come il governo Renzi non se ne stia rendendo conto.
Le leggi le fa il parlamento. L’incontro sul Jobs Act tra il ministro Poletti, i sindacati e le imprese svoltosi ad una settimana esatta dall’imponente sciopero generale del 12 dicembre ha rivelato, una volta per tutte, la linea dell’esecutivo Renzi nel rapporto con i sindacati: ascolto sì, ma senza mai trattare sulle leggi. Quelle sono materia su cui nessuno può mettere bocca al di fuori di parlamento e governo. E infatti Poletti ha accolto le parti sociali senza nessuna bozza dei decreti delegati e con l’avvertimento di non aver ricevuto dal Consiglio dei Ministri alcun potere di trattare. Un appuntamento di cortesia, tanto per scambiarsi gli auguri di buone feste.
“Crisi della legge”. A prescindere dal sospetto che la linea del governo trovi applicazione soltanto nei rapporti con le parti sociali rappresentative degli interessi dei lavoratori, il Renzi-pensiero in materia di relazioni governo-sindacati postula un’assoluta primazia del legislatore nazionale: il che suscita alcune riflessioni di carattere generale.
È singolare che l’ex sindaco di Firenze, politico di successo proprio grazie alla sua continua tensione verso il “nuovo” unita alla rinnegazione di tutto ciò che rappresentasse il “vecchio”, non si accorga di quanto la convinzione di una completa autosufficienza di parlamento e governo statali nella determinazione di decisioni pubbliche possa suonare anacronistica. I continui e rapidissimi progressi scientifici e tecnologici, uniti alla globalizzazione, hanno reso sempre più complesse le relazioni sociali ed economiche, causando ciò cui ci si riferisce quando si parla di “crisi della legge”.
Tralasciando l’aspetto patologico di tale fenomeno, ben compendiato dal sociologo Luciano Gallino nell’efficace formula del “colpo di stato” subito dalle nostre istituzioni democratiche ad opera del potere finanziario, la “crisi della legge” consiste nella progressiva e fisiologica incapacità dei parlamenti e dei governi nazionali di esercitare, da soli, le loro funzioni, perché non più in grado di governare una società sempre meno omogenea. Conseguentemente, si è verificato che la parliamentary supremacy, come è chiamata dagli inglesi, risulti ormai condizionata “dall’alto”, dagli obblighi derivanti dalla partecipazione degli stati ad organizzazioni internazionali generali (ONU, UE), e, allo stesso tempo, “dal basso”, avendo lo stato delegato competenze legislative a livelli di governo decentrato e locale.
Senza dimenticarsi del ruolo di primo piano svolto dai numerosissimi enti di diritto internazionale specializzati e di settore: si tratta di organizzazioni di natura tecnica, anche di tipo privatistico, che, formulando valutazioni e studi di carattere scientifico, economico, etc., individuano standards normativi negli ambiti di loro competenza. I parlamenti nazionali recepiscono tali linee-guida o modelli proprio per evitare di approvare leggi che diventino obsolete ancor prima di essere applicate. Ormai è pressocché impossibile trovare un settore dell’ordinamento immune da simili “norme tecniche”.
Competenze tecniche al potere. Del resto, la centralità delle valutazioni tecnico-scientifiche è caratteristica insita nell’odierna “società del rischio”, come è stata definita da Ulrich Beck. Gli studi più autorevoli hanno dimostrato che uno degli effetti collegati a tale circostanza consista nella sempre maggiore importanza assunta, nell’ambito del procedimento di formazione delle leggi, dell’analisi del dato fattuale, mediante l’attiva partecipazione, in sede consultiva, di organizzazioni ed istituzioni dotate di specifiche conoscenze tecniche. In linea di principio, è quanto si è sperimentato negli anni ’90 con il metodo concertativo, che consentiva il coinvolgimento dei sindacati nelle decisioni del parlamento e del governo sui temi del lavoro. Al netto dei difetti di tale strumento, esso presentava di certo il pregio di dare la possibilità alle parti sociali di far valere e mettere al servizio dell’interesse generale il proprio bagaglio di competenze maturate sul campo.
Tuttavia, la concertazione è stata liquidata dal premier, il quale, nella sua foga rottamatrice, ha mostrato di considerarla una stanca ripetizione di riti superati. Anche volendo credere che l’atteggiamento di chiusura del governo valga allo stesso modo per le associazioni datoriali, è la linea di Renzi ad evidenziare una concezione del ruolo del parlamento, questa sì, ampiamente superata.
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