• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > L’alfiere, il cavaliere e l’elefante

L’alfiere, il cavaliere e l’elefante

Qualche arabismo italo-spagnolo e qualche pensiero mediterraneo.

 
Il Mediterraneo. Il mare tra le terre, lo snodo attorno a cui si articolano tre continenti, la culla del mito e delle leggende, è pure, e da sempre, una grande via di comunicazione. 
 
I greci, che furono tra i primi a navigarlo, non a caso scelsero anche πόντος (póntos) per dire mare: una parola che, proprio come sembra, deriva dalla stessa radice indoeuropea che ci ha dato il latino pons e il nostro “ponte”. Un ponte tra Europa ed Africa come tra Oriente ed Occidente, che è stato attraversato in tutte le direzioni da genti d’ogni risma, a volte da interi popoli, dalle loro mercanzie e dalle loro parole. 
 
Parole che diventano anche arabe, a partire dal VII secolo D.C., quando le genti del deserto raggiungono le sue sponde. Da quel momento, i contatti tra mondo cristiano e Islam si fanno sempre più frequenti. Non sono sempre pacifici. Gli Arabi minacciano di invadere tutta l’Europa e riescono a fondarvi propri stati, in Spagna e Sicilia. I Cristiani lanciano le Crociate e costituiscono un regno in Terrasanta. Più che altro, però, arabi e cristiani commerciano. Arrivano a sviluppare una lingua franca, con cui intendersi, e introducono nelle proprie lingue termini usati dai dirimpettai per indicare, magari, cose che si trovano solo presso questi ultimi.
 
Nelle lingue romanze penetrano così centinaia di arabismi. Riguardano la navigazione e il commercio, ovviamente, ma anche l’agricoltura e, mentre la cultura araba con il califfato abasside raggiunge il proprio apogeo, soprattutto le scienze e in particolare la medicina. Arabismi che Italiano e Spagnolo, per esempio, non hanno solo preso direttamente dagli arabi, ma si sono pure scambiati tra loro.
Vi è, pero, una differenza tra gli arabismi delle due lingue. Nello spagnolo, l’articolo arabo al è conservato, agglutinato al nome, assai più spesso di quanto accada in italiano. Una particolarità che può essere molto utile a chi si occupa della Storia delle parole.
 
Sospettiamo che una parola italiana sia di origine araba? Il modo più semplice di averne una conferma è vedere se per caso il corrispondente termine spagnolo cominci con al; se è cosi, possiamo quasi esser certi che si tratta di un arabismo. (Ma se non è così, non possiamo escluderlo). Qualche esempio? Cappero. In spagnolo si dice alcaparra e la sua coltivazione dev’essere stata introdotta nella Penisola Iberica dagli arabi che lo chiamavano (al) kabar. Carciofo? In spagnolo fa alcachofa e, certo, si tratta di un altro arabismo: deriva (al) haršûf. Un ultimo esempio, fuori dal campo ortofrutticolo? Catrame. In spagnolo è alquitrán e all’origine, anche in questo caso, c’è una parola araba: (al) qatrān.
 
D’altra parte, che in questi arabismi italiani manchi l’articolo al, conservato dallo spagnolo, ci deve far pensare che debbano esserci giunti direttamente dall’arabo o per tramite di una lingua diversa da quella dei cugini iberici. Tornando al cappero, per esempio, con qualche ricerca in più scopriamo che l’originale (al) kabar è arrivato nella nostra lingua attraverso il latino medioevale cappăre(m), che a sua volta deriva dalla parola greca, suppergiù coeva, pparis.
 
In italiano, però, ci sono anche numerosi arabismi che cominciano proprio per al. Seguendo il filo di questi ragionamenti, facciamo bene a sospettare che vi siano giunti attraverso lo spagnolo. Un esempio, in cui siamo sicuri che le cose siano andate così? Alfiere. Un esempio che vale doppio perché deriva dallo spagnolo alférez, che è a sua volta l’esito comune di due distinte parole arabe. Alférez nel senso di portabandiera, infatti ha alla propria origine (al) fāris, “il cavaliere”. L’alférez degli scacchi, che anche in italiano chiamiamo alfiere, deriva invece da (al) fil, che significa “l’elefante”; nelle scacchiere della sponda meridionale del Mediterraneo, d’altra parte, ancora oggi questo pezzo ha proprio la forma di quell’animale.
 
Non è il solo termine legato agli scacchi che sia di origine araba. Quando arrocchiamo, per citarne uno, mettiamo il Re dentro una rukk, una fortezza araba. Lo stesso nome del gioco, ci è arrivato tramite gli arabi, anche se alla sua origine c’è una parola persiana; una delle poche, di questa lingua, che conosciamo tutti. Noi li chiamamo scacchi, come ci hanno insegnato i provenzali che li chiamavano escac, ma in origine non erano altro che il gioco dello šāh, o dello Scià come scriviamo di solito, vale a dire “del Re”. Attraverso i provenzali, che l’avevano imparata dagli arabi, abbiamo appreso anche l’espressione con cui i persiani, inventori del gioco, concludevano le partite: šāh māt, il Re è morto, che è diventata il nostro “scacco matto”.
 
Ma di parole persiane, per solito trasmesseci dai turchi, nella nostra lingua ce ne sono molte altre. Pigiama, per esempio…
 
Meglio che mi fermi, prima di tirare in ballo una buona parte del nostro vocabolario e, dopo Arabi e Spagnoli, Provenzali e Greci, Turchi e Persiani: nominare tutti gli altri popoli che si sono affacciati su quello che i Romani chiamavano Mare nostrum. Non si fermeranno invece le parole e le idee che, assieme alle persone che le portano con sé, continueranno ad attraversarlo. Un pensiero che disturba? Se mi leggete è perché qualcuno, 3.000 anni fa o giù di lì, è partito dalla Fenicia, più o meno da dove ora ci sono il Libano e una parte della Siria, ed ha fatto vela verso Occidente. Con l’alfabeto nella stiva.

Foto: Wikimedia ("Diogo Homem 1563" di Diogo Homem, Photo by Alvesgaspar - Opera propria. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons - http://commons.wikimedia.org/wiki/F...)

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità