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L’Italia, il talento e i sogni degli altri

“Talento da svendere” è un libro un po’ triste e molto saggio che illustra l’ingiustificato declino di una nazione e le possibili soluzioni per invertire la rotta (Irene Tinagli, Einaudi, 2008).

“Anziché brillantemente caotica, l’Italia cominciò ad apparirmi incredibilmente conservatrice e obbediente”. Tobias Jones (www.tobias-jones.com, giornalista inglese che ha vissuto in Italia).

Mi sembra giusto aprire questa recensione citando il punto di vista esterno più neutrale del noto studioso americano Richard Florida (www.creativeclass.com/richard_florida): il libro di Irene Tinagli (nerlla foto) “smonta senza alcuna pietà il mito della creatività italiana”. Le classi dirigenti politiche, industriali e universitarie non hanno saputo valorizzare le potenzialità delle nuove generazioni, che possono sviluppare al meglio le loro idee e le molte qualità solo operando fuori dall’Italia.

In effetti Leonardo e Michelangelo sono morti da più secoli, e quasi tutti gli ultimi premi Nobel italiani sono stati attribuiti a italiani emigrati negli Stati Uniti quando erano molto giovani. Forse solo nella moda e nel design, gli italiani hanno ancora qualcosa di originale da mostrare. E pensare che la Olivetti era riuscita a commercializzare il primo personal computer della storia.

Purtroppo i politici e i manager italiani non riescono a comprendere che il vero patrimonio aziendale sono le persone e la loro soddisfazione. Jim Goodnight, fondatore di SAS Institute ha affermato: “Il 95 per cento del mio patrimonio esce dai cancelli dell’azienda tutte le sere, e il mio compito è farli tornare entusiasti la mattina dopo”. E gli imprenditori conservatori non riescono ancora a capire che “Un’impresa non va da nessuna parte se a pensare sono soltanto i dirigenti” (Akio Miorita, fondatore della Sony). Il culto del potere non può mantenersi a danno della qualità e della sopravvivenza aziendale: i noti tradizionalisti giapponesi sono stati i primi ad affidare al più umile degli operai il potere di bloccare la catena di montaggio nel caso di produzioni difettose.

Comunque molti studi sembrano dimostrare che “il talento, le competenze e la capacità di fare bene sono, sì, caratteristiche dell’individuo, ma maturano e si alimentano, in un determinato contesto. E questo è tanto più vero nella realtà di oggi, in cui la complessità e la specializzazione dei problemi che si affrontano rende sempre più necessario l’accesso a saperi, conoscenze, risorse, che sono complementari alle nostre e alle quali occorre appoggiarsi per lo sviluppo completo di un’idea, la realizzazione di una tecnologia” (p. 7). Inoltre il vero talento segue motivazioni personali e gli obiettivi determinati gerarchicamente o dal denaro possono avere effetti controproducenti (Teresa Amabile, Harvard Business School, www.progressprinciple.com). 

In Italia solo il 14 per cento degli imprenditori e dei manager privati possiedono la laurea, ci sono poche donne dirigenti e l’età media di manager, politici, magistrati e professori universitari varia dai 55 e ai 60 anni. Un’età da creatività moribonda. E l’economia non è più quella di una volta: “nell’ultima classifica dei cinquanta uomini e donne più ricchi del mondo circa il 60 per cento è in possesso di un titolo di laurea, molti tra questi anche di titolo post laurea”.

Nel nostro paese molto vecchio e molto liso, i lavoratori creativi rappresentato solo il 9 per cento della forza lavoro, rispetto al 18 per cento della Svezia, il 14 per cento di paesi come la Germania e la Spagna o il 30 per cento degli Stati Uniti. E forse siamo ancora “l’unico paese tra quelli riportati nella pubblicazione Ocse (www.oecd.org) che, per la popolazione tra i 30-40 anni, ha un tasso di disoccupazione maggiore tra i laureati che tra i diplomati” (dati del 2001, p. 76).

Del resto le università italiane formano delle classi dirigenti “incestuose” e provinciali: nel 97 per cento dei casi le Università assumono docenti italiani, in genere formati dalle stesse Università che offrono la cattedre (dati del 2005 relativi ai dipartimenti di Economia). Invece “nei paesi anglosassoni è praticamente vietato: le università assumono neo-dottorandi e docenti provenienti da altre scuole e altri paesi, perché così si favorisce l’afflusso di nuove idee e prospettive, e si alimenta una maggiore apertura e internazionalizzazione delle università e dei programmi” (p. 115). Infatti le nuove idee tendono a realizzare rendimenti economici e sociali crescenti, mentre le vecchie idee si accontentano dei rendimenti decrescenti della routine.

In definitiva servono più persone creative e meno uomini manager. E nessuna nazione può crescere e migliorarsi senza formare delle persone capaci di far avverare i sogni degli altri. È forse questo l’unico vero talento da istituzionalizzare. Dopotutto “la fortuna favorisce solo le menti già pronte” (Louis Pasteur) e l’economia premia le imprese più agili, più adattabili e più creative.

Irene Tinagli insegna Economia in Spagna (a Madrid). È stata consulente del Dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite. È da molti considerata l’unica candidata alla Presidenza del Consiglio. Impresa difficile da realizzare se pensiamo che l’Italia non ha mai avuto un capo di governo o un capo di Stato donna. Però Monti è più adatto alla prossima Presidenza della Repubblica e quindi non bisogna porre limiti alla provvidenza che ha aiuta i tenaci.

Nota - Le aziende più internazionalizzate sono sempre alla ricerca “di laureati in matematica, informatica, finanza capaci di parlare almeno un paio di lingue”. Purtroppo le università italiane investono poche risorse nelle facoltà scientifiche e non pensano a ridurre in modo considerevole il costo dell’iscrizione agli studenti che scelgono le facoltà scientifiche più utili e impegnative.

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