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L’Iran vulnerabile

La guerra non dichiarata né rivendicata, ma periodicamente praticata da Israele ai danni di strutture e uomini della ricerca nucleare e d’impianti di difesa e sicurezza iraniani è l’altra faccia del ballerino accordo sul nucleare che avvicina e allontana da quasi un decennio Teheran ai grandi del mondo, i cosiddetti cinque più uno: Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania. 

E’ su questa tecnologia per uso civile che tentennano i dubbiosi e soprattutto un nemico dichiarato della nazione persiana: Israele. Le sue sponde diplomatiche e politiche, attive soprattutto negli States, spingono per far naufragare il piano. Durante la presidenza di Trump, che nel 2018 ritirò l’adesione statunitense, il boicottaggio ha raggiunto l’acme, riproponendo una tensione fra gli schieramenti. In aggiunta il Mossad lavora fuori e dentro i confini iraniani, in più occasioni violati da commando che hanno colpito figure di spicco del programma nucleare (su tutti il fisico Mohsen Fakhrizadeh) e apparati della sicurezza di una vulnerabile Intelligence (Vezarat-e Ettela'at va Amniat-e Keshvar), piegata in taluni attentati anche da commando jihadisti. Nella notte di sabato scorso i missili con cui alcuni droni a breve raggio, dunque avviati all’interno dei confini nazionali, hanno colpito una fabbrica di attrezzatura militare presso Isfahan, riproducono quanto era già accaduto in strutture simili nel febbraio e maggio scorsi, rispettivamente a Kermansheh, verso il confine iracheno, e Parchin, a sud della capitale. Più che i danneggiamenti materiali, volutamente sminuiti dall’agenzia statale Irna, resta l’impatto mediatico che evidenzia i limiti della difesa dei cieli della nazione. Carente riguardo alla tecnologia aerea, ha sviluppato negli anni un’efficienza missilistica e di velivoli privi di pilota i cui prodotti (il recente Shahed 136, usato nella guerra yemenita e dai russi sul fronte ucraino) risultano strategici negli attacchi fino a 2500 km.

Eppure nel dare e avere dei conflitti locali, che i corpi armati degli ayatollah hanno tenuto vivi dal Libano, all’Iraq, alla Siria, l’efficacia di taluni settori paga profondamente dazio alle lacerazioni subìte in casa. S’è anche detto che nemici storici dell’islamismo sciita militante, come i Mujaheddin del Popolo - per tutto un periodo relegati in Iraq, a metà strada fra campi di detenzione e protezione della Cia - siano utilizzati per operazioni di Intelligence. Forse è fantapolitica, poiché di quell’organizzazione, di quella generazione possono attualmente agire, i nipoti, qualora ne siano nati. Certo è che l’opposizione al potere clericale, che ha tracimato in gran parte del Paese, può costituire un terreno di reclutamento anche per potenziali agenti dalle azioni speciali. Ovviamente non un reclutamento di massa. I colpi portati all’immagine del regime da operazioni come quella di sabato, rappresentano il frutto di addestramento d’alto profilo e segretezza. Frutto d’una destabilizzazione cui forse non presterebbe il fianco quell’opposizione ad ayatollah e pasdaran che pure rischia condanne a morte dai duri di Teheran, come il giudice delle impiccagioni Salavati. Ma quel futuro rivolto al passato di grandezza (imperiale, zooroastriano) di cui hanno parlato intervistatori dei ribelli davanti ai fuochi di Tabriz, Urmia, Sanandaj, non dei ragazzi solidali delle piazze occidentali che pur con cognomi persiani l’Iran non l’hanno mai conosciuto, potrà materializzarsi sull’onda d’un nazionalismo etnico con azeri, kurdi, beluci e persiani dissidenti agli attuali gangli del khomeinismo. L’ipotetica spallata ai poteri forti di Teheran non può essere esente da conflitti interni assai aspri, ma quelli rivolti contro la nazione iraniana continuano a puzzare di avversari stranieri, d’imperialismo occidentale, sionista, di complotti vari, con cui devono fare i conti anche i cittadini che non amano né Khamenei né Raisi. 

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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