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L’Iran dei martiri di ieri e di oggi

Alle strade che sfidano la morte ma raccolgono altre vittime, finora una cinquantina, si contrappongono le piazze che inneggiano alla morte, dell’imperialismo di sempre, statunitense, considerato il supporter della rivolta dei capelli.

 Quelli tagliati ovunque, dentro e fuori la Repubblica Islamica, da giovani donne, ma non solo. Gesti simbolici contro la morte per uccisione, dicono i contestatori, per malanni pregressi, sostiene la polizia iraniana, dell’attivista kurda Mahsa Amini. La settimana che si è chiusa è stata un crescendo di proteste meno legate al malcontento economico di quelle del 2019, meno tratteggiate dall’imbroglio elettorale rispetto a quanto accadeva nel 2009, ma assolutamente politicizzate contro il regime clericale del velayat-e faqih (il potere del giurista-teologo), voluto personalmente dall’ayatollah Khomeini in occasione della cacciata dello Shah. Ma è la supervisione del clero e della rilanciata polizia morale, è l’ultima parola su ogni legge e ogni atto da parte della Guida Suprema che stanno facendo risuonare in tante città - un’ottantina dichiarano agenzie come Reuters, una dozzina ammette il ministero dell’Interno che ha bloccato ogni rimbalzo sui maggiori social di foto e video postati dai manifestanti - il grido: “Morte a Khamenei”. Questa, che forse la natura sta già facendo maturare non solo per la senilità del soggetto, bensì per l’ultimo malanno da cui risultava operato nello scorso agosto, avverrà prima o poi. Occorre vedere se tale ruolo che ha segnato oltre un quarantennio di vita politica interna e internazionale iraniana avrà seguito. Come tutto ciò accadrà, se senza scossoni di strada e di urne, e chi la incarnerà. Perché se le fiammate, non solo simboliche, non restano celate e vengono coraggiosamente alimentate da una gioventù ribelle, c’è un’altra parte della popolazione che marcia compatta a sostegno del quarantennio finora conosciuto. 

Fatto di guerre laceranti (contro l’Iraq) e di quelle striscianti (in Libano, Siria, Yemen), interventi costosi per un’economia soffocata dalle sanzioni, ma combattute se non più dalla “generazione del fronte” dei basij e mostazafin, da una fetta di quel popolo che rivendica una propria dignità contrapponendosi a nemici che “minano l’autodeterminazione nazionale”. Parola d’ordine antica, rinfocolata, però, da quel cordone sanitario che le sanzioni occidentali e il blocco del programma nucleare hanno creato nell’ultimo decennio. E l’Iran più povero, conservatore, dalla fede oltranzista che si stringe attorno a Khamenei o a chi dovesse subentragli, e a Raisi, un presidente rigido nei modi e nel pensiero difficilmente paragonabile a qualsiasi predecessore, è lì a fare blocco con la polizia morale e con quella che materialmente spara nelle strade. Così ragazze e studenti, i ceti medi non del tutto decaduti economicamente fanno quadrato per un Paese laico che non li perseguiti per acconciature e veli, per idee, parole, canzoni, poesie, sceneggiature cinematografiche accecate e censurate da chi non accetta mondi diversi. Accade in ogni regime, anche dove la religione non si fa Stato, e nell’Iran seviziato dal regime che fu dei Pahlavi un sangue simile è già scorso. Accadde alla stessa ‘Onda verde’ dove le vittime ufficiali furono un centinaio, mentre chi contestava l’elezione di Ahmadinejad disse ch’erano molte di più. Questa società che resta spaccata, arriva a contrapporsi sul sangue. Non riconoscendo nulla all’avversario. Finora i martiri venerati nei crocicchi di certe vie di Teheran erano quelli della vecchia guardia periti nelle trincee sul confine iracheno e successivamente nel sud del Libano. Chi perde la vita in questi giorni, o l’ha già fatto tempo addietro, risulterà un martire o, come sostengono i Pasdaran, è un vandalo che offende il Corano?  

Enrico Campofreda                  

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