L’evoluzione della teoria del restauro

Il termine restauro deriva dal latino restaurare composto da "re" di nuovo e "staurare" rendere rigido, proveniente dal gotico stiuryan.
Nell’antichità, l’attività di restauro si limitava alla semplice manutenzione dell’opera o al suo “aggiornamento”, tenendo in maggior considerazione il lato estetico.
E’ soltanto a partire dalla seconda metà del Seicento che troviamo i primi manoscritti riguardanti le foderature e gli interventi di pulitura dei dipinti, insieme al consolidamento delle pitture murali (intonaci) solo di edifici di rilevanza artistica; si tratta soprattutto di rifacimenti e ridipinture che puntano al recupero originario.
Numerosi sono anche gli interventi architettonici, come testimoniano alcuni manoscritti, nei quali si leggono regole ben precise e modi di operare da applicare però, solo in caso si tratti di beni ecclesiastici.
Con l’avvento degli scavi di Pompei ed Ercolano (1748), con la scoperta delle antichità egizie dopo la campagna d’Egitto comandata da Napoleone (1798), si ha la nascita dello studio storico-archeologico dei beni del passato con una concezione del termine in senso moderno e la presa di coscienza di uno studio più approfondito della materia.
Nell’Ottocento infatti, si sviluppano due correnti di pensiero: quella che tende a preferire la distinguibilità dell’intervento integrativo rispetto alla parte preesistente, integrando le lacune in maniera riconoscibile attraverso la distinzione del materiale e quella secondo cui il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l’opera nelle parti mancanti, perché mai realizzate, perché successivamente distrutte o degradate, perché alterate da nuovi interventi (restauro stilistico); in contrapposizione, nasce in Inghilterra l’Antirestoration movement, che si rifà alle teorie di John Ruskin (1819-1900), secondo il quale il restauro è «la più totale distruzione che un edificio possa subire: una distruzione alla fine della quale non resta neppure un resto autentico da raccogliere, una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto».
In Italia infatti, verso la fine dell’Ottocento si hanno due linee di tendenza: il restauro storico, che afferma la necessità che le integrazioni all’opera debbano essere fondate su documenti storici, e il restauro filologico che riprende il concetto di riconoscibilità dell’intervento, prevedendo il rispetto per le aggiunte aventi valore artistico, che nel corso del tempo sono state apportate al manufatto e tutelando i segni del tempo (patina); per quanto riguarda invece il restauro artistico più rilevanti sono Giovanni Secco Suardo e Ulisse Forni: il primo, nel suo “Manuale del restauro”, mescola sapientemente conoscenze scientifiche dell’epoca con informazioni di metodologia apprese da restauratori europei; il “Manuale del pittore restauratore” di Forni, è una copiosa raccolta di tecniche per risolvere i problemi che si presentano sugli oli, le tempere e gli affreschi.
Nella prima metà del Novecento, in Italia, spicca la figura di Gustavo Giovannoni (1873-1947) il quale introduce il concetto di restauro scientifico: affiancando alla figura dell’architetto direttore e coordinatore del progetto di restauro, le figure di specialisti come chimici, geologi etc.., con lo scopo di apportare utili contributi al manufatto e alle tecniche di intervento; distinguendo inoltre, le varie tipologie di intervento: restauro di consolidamento, restauro di ricomposizione (anastilosi), restauro di liberazione, restauro di completamento e restauro di innovazione.
Nel dopoguerra, in Italia, la teoria del restauro si sviluppa in senso critico (restauro critico) e tra i suoi promotori troviamo nomi del calibro di Roberto Pane, Renato Bonelli e Cesare Brandi.
Via via che la teoria del restauro si concretizza in una seria necessità di intervento per salvaguardare le opere d’arte da trasmetterle ai posteri, si amplia il raggio d’azione su di esse: vengono man mano inclusi anche i beni di interesse etno-antropologico e di cultura materiale e quindi una concentrazione maggiore sul materiale arrivando a sviluppare, negli anni settanta, la teoria della conservazione che prevede un netto distacco con l’integrazione stilistica, e una fusione tra conservazione materiale e integrazione dichiaratamente moderna. Massimi esponenti di questa corrente sono: Piero Sanpaolesi, Amedeo Bellini, Marco Dezzi Bardeschi.
Negli ultimi decenni si è notato un affiancamento tra restauro critico e restauro conservativo fino ad arrivare ai giorni nostri dove si punta più alla ricerca di tecniche di esecuzione che mirino a soluzioni meno aggressive e nocive sia all’opera che a all’operatore del restauro. I principali esponenti contemporanei sono: Umberto Baldini, Giorgio Bonsanti, Giovanni Carbonara, Giovanni Urbani, Alessandro Conti, Gianfranco Spagnesi Cimbolli, Benito Paolo Torsello.
Commenti all'articolo
Lasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox