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L’Autonomia del Personaggio Letterario

Avete mai pensato all’esistenza di mondi altri, spazi surreali ove personaggi letterari prendono vita?

E se un personaggio riuscisse ad acquisire autonomia, talmente tanta da lasciare nell’orizzonte mentale del suo autore l’ipotesi, la magnifica illusione di poter Essere oltre le pagine di un libro?

Quante persone guardando La rosa purpurea del Cairo [1] hanno sognato di ritrovarsi, un dì, di fronte al proprio personaggio (cinematografico o letterario) preferito?

E quanti dopo aver letto le meravigliose opere di Pirandello, o di Dostoevskij o di Saramago, hanno fantasticato sulla reale esistenza di un doppio, un sosia, un duplicato di se stessi?

“Nati vivi, volevano vivere”

L.Pirandello 

Per un autore creare un personaggio non è una cosa semplice né banale. Bisogna inventare tutto: una biografia, una storia, un contesto, una personalità, un’infanzia da ricordare e un futuro da immaginare.

Lo scrittore prima di posare la penna sul foglio avrà, forse, pensato tanto al protagonista di quella che sarà la sua narrazione, a volte si sarà lasciato guidare dal tratto sicuro di una matita su un taccuino, utilizzata per raccogliere quei pensieri arrivati veloci nella mente, per bloccarli, e permetter loro di sfuggire all’amaro destino dell’umana memoria, rivolta sempre all’oblio. Altre volte avrà avuto una chiara idea iniziale, stravolta totalmente durante la stesura di un romanzo.

Ogni personaggio, questo è certo, avrà con il suo autore, un rapporto particolare, un legame forte, a volte simile a quello di un genitore che contempla la sua creatura, a volte guarderà ad esso con sentimenti di invidia, derivanti dall’ineludibile confronto con la propria vita, quella vissuta nel mondo “reale” e la vita del personaggio, immaginata quasi fino a sfiorare, talvolta, la perfezione.

E’ un amore-odio, uno scambio tra reale e immaginato, che genera spesso confusione. Per il periodo di stesura di un libro l’autore e il personaggio si troveranno a coincidere, ad esistere in un’unica mente, una sola persona, una mano, una penna, rivolta a quelle parole, che messe in sequenza ordinate in frasi, periodi, capitoli, andranno a determinare e qualificare sia lo scrittore che il personaggio.

Rivolgendosi agli autori esordienti, sul tema della libertà del personaggio letterario Fredrick Buechner ha scritto:

“Evitate di far marciare i personaggi al ritmo delle vostre ambizioni artistiche. Lasciate loro un piccolo spazio di autentica libertà in cui possano essere se stessi. E se un carattere secondario si mostra incline al ruolo di protagonista, come spesso accade, concedetegli almeno una possibilità. A volte nei romanzi si capisce solo dopo molte pagine chi sono veramente i personaggi principali, proprio come nella realtà potreste impiegare anni a scoprire che magari quello sconosciuto con cui avete parlato una mezzora alla stazione avrebbe saputo dirvi chi siete anche meglio del parroco, del vostro migliore amico, o persino del vostro psichiatra”.

Nel libro Essere Ricardo Montero [2], lo scrittore Gianfranco Pecchinenda rende bene l’idea di una certa autonomia del personaggio, il cui elemento caratterizzante è l’immancabile cappello. Prende forma dai desideri e dalle paure dello scrittore, viene plasmato a seconda dell’influenza esercitata dai suoi maestri, acquisisce toni e colori della terra Argentina, luogo di origine dello scrittore. Ritrova in sé miti, sogni, letture, illusioni, invenzioni, che sono parte della vita dell’autore, ma che nel romanzo acquisiscono una nuova collocazione, un ulteriore significato, un senso altro, che diventa parte dell’esperienza di Ricardo Montero e solo sua.

In Effetti, le caratteristiche comuni a Montero e Pecchinenda sono molteplici, talmente tante, che all’inizio del romanzo il lettore ha la sensazione di trovarsi di fronte a una biografia, a una confessione, a una riflessione sulla vita dell’autore del libro.

Sono, però, tante anche le differenze, quegli elementi, quelle caratteristiche, quelle esperienze che delineano un mondo possibile, quello in cui il protagonista del romanzo vive i suoi momenti di confusione e inquietudine, quegli istanti di simbiosi e autonomia, alternati alla voglia di evasione, di vita vera, di rivincita, di riscatto.

La minuziosa descrizione della composizione familiare, dei luoghi dell’infanzia, delle vicende che tra emigrazioni, difficoltà, matrimoni, scelte difficili da prendere per il bene dei figli, il sogno americano, le separazioni dagli affetti più cari, sorprendenti ritorni, e intricati incroci parentali, hanno portato alla nascita di Ricardo, fanno pensare a una sorta di nostalgia, da parte di colui che scrive, di ritrovare le proprie radici, di riannodare gli episodi della propria intima memoria per dare ad essa un filo logico, per ritrovare la consapevolezza del proprio essere. E’ come se, guardare indietro, verso quel passato dolceamaro, quei luoghi ormai lontani, quei profumi, quelle consuetudini dal sapore antico, servisse in qualche modo a distrarsi dal pensiero del futuro e da tutte le considerazioni, bilanci, angosce, decisioni che ne derivano.

Si respira, nelle descrizioni dei luoghi di questo libro, un’aria familiare, tra citazioni di grandi della letteratura, omaggi musicali e rievocazioni di momenti cinematografici d’alto spessore, al lettore sembra di camminare davvero in una di quelle strade parigine in cui la storia si svolge, oppure di poter immaginare, quasi vedere e perdersi nello strano, immenso panorama orizzontale già sapientemente descritto nel primo romanzo di Pecchinenda, “L’ombra più lunga- Tre racconti sul padre”.

Sorprende del romanzo anche l’originale e spiazzante postfazione, spazio in cui un altro personaggio letterario, Augusto Pérez del romanzo "Nebbia", di Miguel de Unamuno (1914) esce dal libro in cui nacque, per rammentare a Ricardo l’inevitabile destino di tutti i personaggi letterari: la fine per mano dello stesso scrittore che ha dato loro la vita. Egli spiega, parlando dei personaggi della letteratura la sostanza del loro essere:

“Noi siamo, ma non nel senso in cui gli altri esseri sono.

Siamo umani, anche, se vogliamo metterla così, ma di un genere di umanità diversa da quella di cui sono portatori gli altri esseri umani. La differenza la fanno proprio il corpo, la faccia, e tutti quegli attributi che tutti loro hanno e che noi invece non abbiamo. Ma questo Ricardo lo capirà tragicamente solo quando ormai sarà troppo tardi. Anch’io, così come molti altri prima e dopo di me, avevo avuto a suo tempo le stesse perplessità, avevo avuto lo stesso drammatico genere di sgomento. Poi, un po’ tutti, chi in un modo, chi in un altro, ce ne siamo saputi fare una ragione. Il problema, forse, sono oggi proprio queste nuove tecnologie, tutte queste strane diavolerie che tendono ad illudere alcuni dei più giovani tra noi, per poter diventare degli esseri più autonomi, più indipendenti, più liberi e forse anche più veri di quello che potremmo mai essere. Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui. Solo che lui, Ricardo, per qualche motivo, ha voluto tentare fino alla fine di sfuggire al suo inesorabile destino. Non poteva che essere così. …”

Certo non dev’essere facile da parte dello scrittore, anzi richiede molta forza, riuscire a dare una fine al proprio personaggio, colui che attraverso l’opera letteraria diventa una figura costante, un doppio come scrive Pecchinenda, esplicitandone il concetto in più passi del suo romanzo:

 “Esiste nell’uomo una realtà ineludibile e che riguarda il doppio (Il sosia), che assume sostanzialmente la forma di una vita segreta e inconfessabile, a meno che non si faccia ricorso,[...] alla scrittura letteraria: la fuga da se’ stessi è impossibile; un sosia ci accompagna sempre e comunque, inesorabile e implacabile, in ogni luogo e in ogni momento, al fine di convincerci della sua propria ineluttabilità

E poi:

“Un doppio è, in genere, un duplicato. A un’entità originale si affianca, come un’ombra , un’altra entità. Il mio doppio è però molteplice, […]E soprattutto non gode di alcuna stabilità. E’ precario, vive di brevi momenti, per essere successivamente sostituito da altri come lui. Una pluralità di altri.”

E ancora:

“Un giorno ho deciso che sarei diventato uno scrittore. Un giorno, un altro giorno, mi sono accorto di esserlo diventato. Da quel momento ho cominciato a sentirmi affiancato, con il passare del tempo, e in modo via via sempre crescente, da un "altro" …….”

L’autore del romanzo sembra diventare quasi lo strumento attraverso cui il personaggio comincia ad Essere, sfogliare le pagine in cui Ricardo Montero racconta di essere “l’altro” evoca un po’ la prefazione di Pirandello all’opera "Sei personaggi in cerca d’autore", dove lo scrittore confessa di aver acconsentito a quello strano meccanismo, quel bisogno estremo che lo vede diventare servo del personaggio, dei personaggi, che attraverso la sua mano e la sua penna intendono prendere vita.

“Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch'esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. Posso soltanto dire che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch'io li facessi entrare nel mondo dell'arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella.

Nati vivi, volevano vivere” [4]

Una volta creato, il personaggio che affianca, lo scrittore sarà in grado di lasciare in lui una forte impronta. Egli sarà lo strumento attraverso cui l’autore potrà sentirsi più vicino ai propri maestri, attraverso le parole, colui che scrive, potrà fare quel viaggio tanto desiderato, trovare una pace nemmeno mai sperata nella vita reale, confessare quel segreto che tanto pesava sulla sua coscienza, fermare il tempo, cambiare i ruoli, status, aspettative, doveri, responsabilità. Persino, talvolta, ritrovare quell’amico per orgoglio mai più cercato, o rivolgere la parola a quella donna ammirata sempre e solo da lontano, ricercata solamente con lo sguardo, col pensiero, con i sogni, o potrà dire al proprio padre quelle parole mai dichiarate o accompagnare la propria madre a quel ballo, sempre rimandato, senza più vergogna, farlo con orgoglio, con consapevolezza, con amore.

E’ come se ogni evasione dalla vita reale, prendesse vita nel personaggio, come se esso fosse al di là dello specchio dell’autore, in un mondo dove la fantasia, la finzione, è la compensazione di ciò di cui lo scrittore è privo o verso cui egli tende.

Un po’ come succede al sognatore secondo R.Bodei in “Letteratura e Psicanalisi”, "si ritrova in negativo l'universo intellettuale e affettivo del sognatore, i suoi desideri ma anche ciò che una determinata realtà storica e sociale gli preclude e gli concede". E’ “una periodica rivincita della fantasia e del "principio del piacere" contro il principio della realtà". E’ la magia della letteratura, quella che tra la realtà e la follia ci da una terza scelta, la scrittura, l’immaginazione.

E’ questo tipo di magia che forse fa si che un personaggio letterario trovi dei luoghi altri che gli permettono un’evasione dalle pagine del libro in cui nasce e che permette allo scrittore di un’opera letteraria di uscire dalla “pena della sua propria forma” per essere altro.

Un personaggio prende vita nelle interpretazioni personali di ogni lettore, negli apprezzamenti e nelle critiche di chi scrive su di esso, negli articoli, nelle pagine di giornale, nei libri di altri scrittori, che innamoratisi di lui, lo prendono in prestito per fargli vivere nuove avventure.

Ritorniamo all’esempio di Ricardo Montero: basta fare una piccola ricerca sul web per renderci conto di quanto autonomo sia diventato il personaggio rispetto all’autore, non solo nella narrazione, ma anche al di fuori, facebook soprattutto, che poi è uno dei luoghi in cui il romanzo prende forma, è popolato da tante pagine, profili, gruppi, che prendendo spunto da "Essere Ricardo Montero" parlano del personaggio, del doppio, di personaggi affini, o semplicemente che elencano citazioni per evidenziare e condividerne il messaggio

Nel Romanzo Essere Ricardo Montero, questa tensione tra l’autore e il personaggio viene resa palese, esplicitata, esasperata fino a chiedersi concretamente quanto di ciò che si legge sia finzione, e quanto invece sia verità, biografia, desiderio, messaggio. Ricardo Montero è un esempio forte di autonomia del personaggio, di incontro e distacco col proprio autore.

Ma questo discorso può estendersi alla letteratura in generale: il personaggio si ancora alla memoria del lettore che in esso si identifica, oppure trova elementi che lo attraggono, o che evocano qualche emozione particolare della propria vita. In questo modo il personaggio diviene memoria, e alla lunga può succedere, e accade spesso, che esso viva anche oltre la vita dell’autore, il lettore ne ricorderà azioni, opere, gusti, storia, mentre può capitare che dell’autore nemmeno saprà elencare più la biografia essenziale.

La letteratura è piena di personaggi meravigliosi, che non lasceranno mai la nostra mente e grazie ai quali si continuerà a sognare, a sperare, a viaggiare in altre appassionanti letture. Per chi farlo in fondo se non per essi, questi personaggi che riescono ad essere sempre così “vivi”, le cui vicende ci tengono intimamente legati, come amici, compagni di viaggio… inconffessabili amori?

Infondo come dice Pecchinenda “Alla lungo tutto diventa memoria” quello che conta è ancora una volta lo stupore, l’emozione.

 

 

[1] La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo - "La rosa viola[1] del Cairo" in lingua inglese) è un film del 1985 diretto da Woody Allen

[2] Essere Ricardo Montero, Gianfranco Pecchinenda, Ed. Lavieri

[3] Luigi Pirandello Prefazione a Sei personaggi in cerca d'autore, Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, vol. II, ed. Arnoldo Mondadori

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