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L’Agenda Monti: riflessioni di una persona qualunque

Con la pubblicazione dell'Agenda di governo il professor Monti ha formalizzato quella che ha definito la sua salita in politica, invitando il lettore a fornire un contributo ad una riflessione aperta. Lo faccio volentieri, da persona qualunque, quisque de populo in un paese così, senza la pretesa di inerpicarmi anch'io verso i nobili sentieri della politica, senza la qualifica di professore, ma fornito di quel buonsenso del padre di famiglia che bene o male consente al paese di tirare avanti.

Senza attardarmi sulle parole nobili, sui propositi condivisibili e senza invocare precisazioni su concetti fin troppo abusati quali democrazia, crescita economica e sviluppo sostenibile, mi limito a proporre, a chi ha citato De Gasperi, alcune modifiche che ritengo imprescindibili fin dalle prime battute nel programma di uno statista che si candidi al governo del paese.

Nel primo capitolo dell'Agenda si parla del nostro Paese e dei suoi rapporti con un'Europa dai molti aggettivi, in cui si raccomanda una presenza costante e vigile per far valere il nostro punto di vista; si ricordano gli Stati uniti, la Nato, il terrorismo, le forze armate, la pace nel mondo e persino la pirateria, ma si ignorano parole come disarmo, produzione e commercio di strumenti bellici, spese militari. Se non si affrontano certi argomenti, nella tessitura di un “sistema di relazioni globali”, quali idee si dovrebbero mai (ri)lanciare per assicurare un futuro alle prossime generazioni?

Il secondo capitolo si addentra nello specifico delle misure previste e in parte avviate dall'attuale governo e, come si può immaginare, si presterebbe a discussioni interminabili su possibili, migliori alternative. Basti qui segnalarne i limiti più evidenti quali lo scarso contributo fornito dai grandi patrimoni al gettito fiscale complessivo; la mano leggera usata nella riduzione di sprechi e privilegi rispetto al pugno di ferro adottato sui redditi dei meno abbienti; la mancata citazione della FIAT fra le aziende coinvolte nelle crisi industriali; il ripetuto richiamo ad una “competizione” di cui occorrerebbe evitare la morsa quando viene praticata da altri e perseguire con successo quando tocca a noi, insensibile ad ogni aspirazione verso nuove forme di collaborazione e di integrazione a livello globale come alternativa ai guasti prodotti su scala planetaria dallo slogan funesto “competition is competition”.

Del terzo capitolo, “Costruire un'economia sociale di mercato”, colpisce la denuncia del calo demografico del paese, l'auspicio che l'Italia “torni a fare bambini” e l'inaccettabile rifiuto di considerare l'immenso potenziale del popolo degli immigrati quale possibile contributo al benessere e al futuro del paese.

Il quarto capitolo, "Cambiare mentalità, cambiare comportamenti", contiene proposte condivisibili, ma presenta una grave lacuna. Fra i comportamenti da cambiare, in particolare da parte delle forze politiche, avremmo ritenuto necessario ricordare, in conformità ai dettami costituzionali, l'indifferenza verso la dignità umana, specie nei confronti dei più umili, dagli immigrati clandestini ai carcerati. Concludendo, alla luce di un comune buonsenso, la proposta, pur rispettandone la matrice ideologica, richiederebbe un profondo riesame e una sostanziosa iniezione di fantasia nella definizione di soluzioni nuove per lo sviluppo (che non sempre deve coincidere con la crescita) del Paese. Desolante è infine l'assenza di idee su come affrontare e risolvere in tempi ragionevoli il problema di una generazione di giovani senza futuro.

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