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Kabul, la bomba sull’esame

Una mattina d’esame, la tensione della prova, ma anche la gioia dell’incontro con amici e colleghi d’un percorso difficile, non solo per le materie. Per il luogo. Per l’aria che tira. L’esame si tiene a Kabul, nel quartiere di Dasht-e-Barchi dove gli hazara vivono e troppo spesso muoiono. Per camion-bomba, per kamikaze che ti camminano al fianco e in certe circostanze si fanno esplodere.

 Da cinque anni, da quando l’Isis-Khorasan s’è organizzato contro tutti e tutto, è tornata anche l’immolazione del miliziano che deflagra assieme alle sue vittime. Non li fermava la presenza della Nato, non li fermano i talebani, con cui hanno battagliato a distanza dal 2017 attorno all’esplosione più fragorosa, all’attentato più eclatante per mostrare chi è il più abile. Da quando gli studenti coranici hanno preso il potere questa furia distruttiva non è diminuita. Anzi. Iniziava già un anno fa con un centinaio di vittime durante il “passaggio di consegne” fra reparti dei marines che dirigevano la fuga della disperazione all’aeroporto Karzai e i talebani dell’accordo di Doha che s’insediavano nei palazzi del governo. I dissenzienti fra loro, da tempo carne delle milizie del Khorasan, storcevano il naso e preparavano gli ordigni. Ne hanno fatti brillare decine con cadenza mensile, talvolta settimanale, allungando la scia di sangue nelle strade, moschee, scuole, mercati ovunque la popolazione deve aver paura di circolare. Stamane si contano 32 morti e un’infinità di feriti. “L’attacco a obiettivi civili è l’ennesima prova dell’inumana crudeltà e dell’assenza di valori morali” ha affermato il portavoce della polizia dell’Emirato afghano Khalid Zadran, riferendosi all’attentato. Sono giovani e adulti, uomini e donne - prevalentemente studenti di etnìa hazara. Erano riuniti per una prova d’esame in una scuola privata della capitale che li preparava all’ingresso all’università. L’affanno dei loro familiari sta nel cercare segnali sull’accaduto, agognando segni di vita. La speranza è flebile ma resiste, quando si corre verso i pochi ospedali, sempre gli stessi: Emergency, Médecins sans Frontières, si sta appesi a voci che circolano. Che vanno dallo scampato pericolo, cui sebbene abituati non ci si abitua mai, alla disperazione dell’apprendere che uno dei figli è diventato un martire. Proprio come chi lo ha ucciso. Nessun martirio risulta più straziante di quello scelto da un destino manovrato da chi pianifica morte.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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