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Juan Sanchez Cotan: il pittore del desengaño

Ci sono aspetti di una società e di un’epoca che trovano il proprio specchio più fedele nelle opere d’artisti che, per una qualche ragione, sono pressoché ignoti al grande pubblico

Non ho né le conoscenze né la necessaria prospettiva storica per dire chi, di questa nostra epoca, tanto insicura da non essersi neppure data un nome, stia offrendo la migliore rappresentazione, ma conosco un pittore che ha espresso perfettamente, quattro secoli or sono, un sentimento che è proprio di tanti uomini e donne della mia generazione.

 

Gli Spagnoli parlano di “desengaño” per indicare quel sentimento generato, nella sensibilità dei loro compatrioti del seicento, dalla crisi degli ideali rinascimentali abbinata alla coscienza che, nonostante l’argento delle americhe, nelle condizioni sociali ed economiche del paese nulla stesse cambiando, se non in peggio.

Un disinganno del tutto simile a quello che proviamo, oggi, ripensando agli ideali degli anni 60 e 70.

Era naturale, in quei decenni, pensare che la società del futuro – quella d’oggi – sarebbe stata sempre più libera, equa e ricca.

Le conquiste sociali già ottenute parevano ormai fuori discussione, mentre altre sembravano prossime a venire. Ineluttabili.

La crescita economica continuava, seppure con qualche rallentamento, ininterrotta dagli anni dell’immediato dopoguerra, e pareva inarrestabile: la realizzazione del sogno di un benessere generale – perlomeno nel nostro mondo che orgogliosamente definivamo il primo – sembrava fosse ormai a portatata di mano.

E’ facile datare l’inizio dell’età della disillusione in capo economico; ci pensò la prima crisi petrolifera, nel 1973, a ricordarci che il nostro sviluppo doveva fare i conti con le risorse limitate del pianeta.

Più difficile dire quando sia cominciata la crisi degli ideali libertari degli anni sessanta, sintomo di una più generale crisi del sogno occidentale; di un ripiegamento verso l’interno della società e degli individui.

Forse proprio in quello stesso anno, con il ritiro americano dal Vietnam; certamente era cosa già avviata quando il bisogno di certezze di un società che non era più capace di gestire i cambiamenti, portò all’elezione di Ronald Reagan nel 1981.

Vincemmo la guerra fredda, grazie alla restaurazione degli anni successivi, al ritorno all’individualismo, all’esaltazione della competizione economica e ad una politica estera che, imputandogli la sconfitta in Vietnam, si era scrollata di dosso il pacifismo della beat generation per farsi sempre più aggressiva.

Sconfiggemmo l’Unione Sovietica, ma per farlo rinunciammo alla parte migliore di noi.

Nel 1989, con il crollo dell’Unione Sovietica, scomparve anche uno degli elementi che ci definiva; che ci dava un’identità.

Scomparso il nemico siamo rimasti soli, incapaci di affrontare le trasformazioni economiche e sociali – la mondializzazione del libero mercato e la spinta all’omologazione – del neo-capitalismo trionfante.

La guerra fredda ha visto anche la nostra sconfitta: ci ha lasciato più poveri e soprattutto meno liberi. Incapaci di sognare.

Non v’è nulla di terribile nel vivere in un’epoca di cambiamento; lo sono tutte, con buona pace di Fukuyama. E’ il nostro rapporto con questo cambiamento quello che ci angoscia; non ce ne sentiamo protagonisti, ma vittime o, al massimo, spettatori.

Si sentivano così a Vienna cent’anni fa, vedendo l’Impero crollare a pezzi; ora Vienna è ovunque. Un Karl Kraus che scrivesse la versione d’inizio millennio de “Gli Ultimi dell’Umanità” potrebbe vivere, oggi, in qualunque grande città del primo mondo.

E’ netta la sensazione che il mondo non ci appartenga più; che i nostro destini, come individui e come società, siano decisi da altri.

Non generiamo più né ideali né ricchezze; non abbiamo più alcun controllo sulle forze che muovono la storia. Molti di noi preferiscono non sapere; fuggono in mondi immaginari come quello di Chisciotte e del pallone o confondono, come il Sigismondo di “La vida es sueño” i sogni, magari presi a prestito dalla televisione, con la realtà.

In tanti, se non in tutti, c’è un intima consapevolezza di vivere in un tempo sospeso; d’essere prigionieri di una fortezza – sì, Buzzati, i nostri anni li vedeva già, con l’occhio del profeta – in attesa dell’attacco di barbari di cui nulla sappiamo. Neppure se non siano già tra noi.

Se Velazquez è il pittore di un potere politico che si sfalda, con la sua corte di nani e buffoni – chissà che immagini avrebbe colto alla corte di Re Silvio - e ci restituisce un mondo d’umili dimenticati dalla fortuna, di polverosi acquaioli e vecchie rinsecchite che friggono uova, come disoccupati e precari dei nostri giorni, è nelle opere di Juan Sanchez Cotan che il disinganno trova la sua più poetica rappresentazione.

Cercate in rete le immagini delle sue nature morte; in particolare io amo quella conservata alla “Fine Arts Gallery” di San Diego.

Meglio ancora, se non lo conoscete: dipingetevi prima nella mente una natura morta barocca, carica d’argenti e ori, di frutti e di fiori, e poi andate a vedere le opere dello spagnolo.

Vi sorprenderà immediatamente il rigore, il gelo, di quelle composizioni assolutamente metafisiche e completamente diverse da quello che è probabile che abbiate immaginato.

Pochi elementi riquadrati dal fondo nero di una finestra a rappresentare un peculiare senso del tempo. Solo Hopper, tra i grandi, riesce a dipingere l’attesa come Cotan.

E’ l’attesa di un arrivo, il tema di tanti dei quadri del maestro americano; le sue stanze attendono qualcuno che deve arrivare o qualcosa che deve accadere.
Anche nei dipinti di Cotan i minuti e le ore gocciolano lenti, ma non ci si aspetta che nulla possa mai accadere.

Natura morta si dice in inglese “still life” che si potrebbe tradurre letteralmente con vita silenziosa; still vuol però dire anche fermo. Guardate il quadro del museo di San Diego: nulla in quell’immagine si muoverà mai. Solo il tempo, ineluttabilmente, passa.

E’ vita ferma; sospesa come quel cavolo che, stagliato contro il nero, pende appeso ad una corda: solo ci si aspetta la putrefazione e la caduta.

La stessa sensazione, in fondo all’anima, che tanti proviamo volgendo lo sguardo alle nostre vite, alla nostra società e al nostro paese.

Un malessere che può facilmente trasformarsi nel più mortale e distruttivo dei languori.

L’unica ricetta possibile per non lasciarsi vincere dalla disillusione ce la fornisce sempre Sigismondo, nella scena finale dell’opera di Calderon de la Barca:
“Anche se è un sogno quel che conta è fare, e fare bene”.

Mio nonno, che era montanaro, minatore e pastore, ma non drammaturgo, mi avrebbe semplicemente detto: “lavora che ti passa”.

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