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Jobs Act: il dubbio si incunea

Su Panorama di questa settimana, un commento del professor Michele Tiraboschi spiega cosa è esattamente il Jobs Act. O meglio, cosa sono i sussidi utilizzati per spingere le assunzioni col nuovo tempo indeterminato nel 2015. Ve lo diciamo noi, cosa rischiano di essere: uno spreco di risorse pubbliche. Esattamente come il bonus da 80 euro.

Scrive Tiraboschi, non prima di aver premesso che la riforma non scalfisce lo storico dualismo tra lavoratori privati e pubblici, mentre ne crea uno nuovo tra vecchi e nuovi assunti (che dovrebbe essere destinato a rientrare in un’ottica di medio-lungo termine, per effetto del fisiologico turnover della forza lavoro):

«A fine anno avremo così quasi un milione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato, ma difficilmente un solo posto di lavoro in più rispetto all’anno passato trattandosi di trasformazioni di vecchi contratti a termine precari in nuovi contratti a tempo indeterminato altrettanto precari. Un’operazione molto costosa, ancora senza copertura certa (si stima che solo per il 2015 manchino 3 miliardi di euro), che ha come obiettivo una stabilizzazione del lavoro precario che tale non è se è vero che il nuovo contratto a tempo indeterminato non avrà più quella stabilità che solo l’articolo 18 poteva garantire»

Un’operazione che conferma l’approccio da gambler di Renzi, che ha deciso di giocarsi tutto nel 2015, contando su una poderosa ripresa che semplicemente non avverrà. E le ricadute per i soggetti coinvolti sono tutte lì da vedere, almeno per chi vuole vederle:

«Un’operazione non a somma zero per le casse dello Stato (e dunque alla lunga per le stesse imprese in termini di incremento della tassazione e del cuneo fiscale) se solo si considera il combinato tra mancate coperture dell’esonero contributivo, pari circa a 5 miliardi, e mancato gettito per i prossimi anni stimato nella stessa relazione illustrativa della legge di stabilità in ben 15 miliardi di euro: cosa ben diversa se si fosse trattato di un milione di nuove assunzioni e non di (finte) stabilizzazioni. Sono i dati a parlare: in un anno di governo Renzi (marzo 2014-marzo 2015) i posti di lavoro aggiuntivi creati sono solo 30.633»

Invece, come è ormai chiaro, saremo bombardati dalla propaganda sul “milione di posti di lavoro a tempo indeterminato” e dalla sua variazione sul tema “segnalateci quali sono le banche che non danno i mutui ai nuovi contratti a tempo indeterminato”. Perché, come conclude Tiraboschi, solo la crescita economica cura ogni male:

«[…] occupazione aggiuntiva non si crea con uno sfacciato gioco delle tre carte che, alla lunga, si rivela per quello che è: un bluff e poco altro nella speranza che sia l’inversione del ciclo economico a sancire la ‹svolta buona› annunciata da Renzi ma che ancora non c’è»

Che questo bizzarro sussidio triennale che necessita di assunzioni nel 2015 rappresenti un problema lo stanno ormai capendo in molti. Ad esempio, lo ha capito Tommaso Nannicini, economista e consulente del premier sui temi di lavoro e fisco. Il quale, intervistato sul Corriere da Antonella Baccaro, si esprime in questi termini sulla riduzione posticcia del cuneo fiscale:

Cosa ne sarà nel 2016 del taglio del cuneo contributivo che dovrebbe promuovere l’uso del contratto a tutele crescenti per i più giovani?
«È il tema dei temi. Oggi questa misura congiunturale è una specie di droga, bisognerà inventarsi qualcosa di strutturale nella legge di Stabilità, altrimenti si creerà un incentivo perverso a cambiare forza-lavoro ogni tre anni. Penso a una riduzione strutturale del cuneo contributivo che dovrebbe, per il tempo indeterminato, attestarsi su livelli più bassi»

Questo è il punto: una riduzione strutturale del costo del lavoro, sia dal lato azienda che dal lato lavoratore è cosa ben diversa da questa “offerta speciale” inventata dal governo. Che accadrà allo scadere del triennio di decontribuzione, se il costo del lavoro risulterà “strutturalmente” troppo elevato, ipotesi per nulla peregrina? Vediamo la questione in questi termini: secondo voi, in ipotesi risultasse effettivamente “troppo elevato”, sarà più facile ridurre il costo del lavoro attraverso sgravi permanenti sul cuneo lato imprese oppure attraverso tagli alle retribuzioni contrattuali?

Ecco, quindi, l’esigenza di decentralizzare a livello di impresa la contrattazione collettiva. Se nel medio-lungo termine ciò è funzionale allo sviluppo della produttività, nel breve termine questa migrazione di contrattazione tende a produrre pressione ribassista sulle retribuzioni. In tal caso, poiché tutto si tiene, ecco che servirebbe il puntello di un salario minimo garantito. Ovviamente, minimo quel tanto che basti ad evitare o contenere il fenomeno deiworking poors ed al contempo evitare di creare disoccupazione aggiuntiva sui lavoratori a minoriskills. E vi garantiamo che la questione è da sempre ben presente, in ambito governativo: è solo che non la si esplicita, per motivi facilmente intuibili.

Ad oggi, ed in attesa che questo nodo venga al pettine, possiamo quindi dire che l’unica misura realmente strutturale del governo sul cuneo fiscale è stata l’eliminazione della componente di costo del lavoro dall’Irap, per i contratti a tempo indeterminato. Il tempo dirà che il sussidio triennale per gli assunti nel solo 2015 è una misura piuttosto furbetta. E soprattutto miope.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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