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Istat e potere d’acquisto: dove la ripresa italiana continua a non arrivare

Lo scorso 8 gennaio Istat ha pubblicato il rapporto trimestrale su reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società. Sono numeri interessanti perché consentono di gettare luce su alcune tendenze profonde dell’economia italiana, quelle che sfuggono al grande chiacchiericcio. Per il terzo trimestre 2015 abbiamo una lucina ed alcune umbratili conferme.

Partiamo dal dato positivo: nel terzo trimestre il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici italiane è aumentato dell’1,4% rispetto al trimestre precedente e dell’1,3% sul terzo trimestre del 2014. Nei primi tre trimestri del 2015, nei confronti dello stesso periodo del 2014, il potere di acquisto è cresciuto dello 0,9%. Ma cosa è il “potere d’acquisto”, esattamente? Si tratta del reddito lordo disponibile delle famiglie espresso in termini reali, cioè ottenuto utilizzando il deflatore della spesa per consumi finali delle famiglie. Il miglioramento si deve a due circostanze convergenti: la lieve ripresa del reddito disponibile lordo e la disinflazione. Ma, come intuiranno i più filosofi tra voi, c’è differenza tra potenza ed atto, nel senso che non è detto che il potere d’acquisto si trasformi in spesa.

A questo proposito, torniamo alle grandezze nominali per monitorare quella che è la bestia nera del nostro premier: il tasso di risparmio. Nel senso che, secondo Renzi, un aumento di questo tasso sarebbe la spia di “paura”. Una rozza e del tutto fallace regola del pollice, come noto, ma ogni epoca ha le sue fissazioni del potere. Per il canone renziano, il terzo trimestre 2015 porta quindi brutte notizie, visto che

«Nel terzo trimestre del 2015 la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici (definita dal rapporto tra risparmio lordo e reddito disponibile lordo) è stata pari al 9,5%, in aumento di 0,9 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 0,3 punti percentuali nei confronti dello stesso periodo del 2014. L’aumento della propensione al risparmio rispetto al trimestre precedente deriva da una crescita del reddito disponibile delle famiglie consumatrici più sostenuta rispetto a quella dei consumi (1,3% e 0,4% rispettivamente)»

Quindi, gli italiani hanno deciso di spendere solo in parte l’aumento di reddito disponibile. Prendiamo atto, non c’è nulla di drammatico in ciò, se non siete il premier italiano. Dai consumi delle famiglie passiamo agli investimenti, di famiglie e -soprattutto- imprese. E qui i dati non sono esattamente eclatanti. Cominciamo con la definizione, vagamente ossimorica, di “tasso d’investimento delle famiglie consumatrici”, che per Istat è semplicemente il rapporto tra acquisti di abitazioni e reddito disponibile lordo. Ebbene, nel terzo trimestre tale tasso di’investimento è stato pari al 6%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali sia rispetto al trimestre precedente, sia rispetto al corrispondente trimestre del 2014. Molto banalmente, la spesa per acquisto di immobili è cresciuta meno dell’aumento del reddito disponibile. Nel 2015 il valore di picco di tale indicatore era al 7,5% circa, da allora è solo sceso, ed il trend discendente è intatto. La cosa non stupisce, visto che siamo appena usciti da una crisi devastante e restiamo un paese molto anziano, ad elevato tasso di proprietà immobiliare e con un tasso di formazione di nuovi nuclei familiari molto basso. Questo per chi pensa che dai mutui possa venire l’agognata “ripresa” italiana.

Veniamo al dato più interessante, il tasso di investimento delle aziende non finanziarie. Ecco i numeri:

«Nel terzo trimestre del 2015 il tasso di investimento delle società non finanziarie (definito dal rapporto tra investimenti fissi lordi e valore aggiunto ai prezzi base) è stato pari al 18,8%, con una diminuzione di 0,3 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 0,2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2014. Gli investimenti fissi lordi delle società non finanziarie, misurati ai prezzi correnti, hanno segnato una flessione dello 0,3% in termini congiunturali e un aumento dell’1,7% in termini tendenziali»

Che tradotto significa che la dinamica degli investimenti aziendali italiani resta declinante. Nel 2010-2011, prima della Grande Crisi, il tasso d’investimento delle società non finanziarie era intorno al 22% del valore aggiunto. Il buco c’è, si sente e -soprattutto- persiste.

La sintesi? I dati su risparmio e investimenti di famiglie e aziende confermano che la ripresa è superficiale, e che i trend declinanti iniziati nel 2011 non appaiono al momento neppure scalfiti da essa.

Tasso investimento ITA Q3

Questo articolo è stato pubblicato qui

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