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Istat: calano le vendite al dettaglio. Meno alimenti per gli italiani

"Ma noi ne usciremo meglio di altri"... Diceva il nostro Ministro dell'Economia.

Come comunica Istat, a gennaio 2011 l’indice destagionalizzato delle vendite al dettaglio a valore corrente diminuisce dello 0,3% rispetto a dicembre 2010. Nella media del trimestre novembre 2010-gennaio 2011 l’indice diminuisce dello 0,1% rispetto al trimestre immediatamente precedente. Le vendite di prodotti alimentari scendono dello 0,5% rispetto a dicembre 2010, quelle di prodotti non alimentari dello 0,2%. Rispetto a gennaio 2010 l’indice grezzo (cioè non corretto per i giorni lavorati) segna un calo dell’1,2%.

La diminuzione delle vendite registrata nel confronto con il mese di gennaio 2010 deriva da variazioni negative dello 0,9% per le vendite della grande distribuzione e dell’1,4% per quelle delle imprese operanti su piccole superfici. Il dato, secondo il presidente di Confcommercio, Marco Venturi,

«Colpisce molto: è andata peggio della fase più allarmante della crisi nel 2010. Ma soprattutto fa riflettere il calo degli alimentari nei piccoli negozi e perfino nella grande distribuzione: questo vuol dire che siamo davvero alla frutta»

A parte l’ironia (auspicabilmente involontaria) su alimentari e frutta, se al dato nominale della contrazione si somma la variazione dell’indice dei prezzi al consumo (1,9 per cento euro-armonizzato a gennaio), otteniamo una stima grezza della contrazione reale (cioè in volume) di beni acquistati di oltre il 3 per cento nell’ultimo anno. Il nostro timore è che, sulla scorta di questo dato desolante, oltre che dell’ancora peggiore andamento delle imprese operanti su piccole superfici (il commercio tradizionale), si giunga alle solite richieste da destra sociale con le pezze sul lato B, cioè il blocco delle iniziative di sviluppo della grande distribuzione organizzata. Sarebbe una reazione del tutto prevedibile, in un paese che sta attivamente cercando di accelerare la tendenza di fondo al declino.

Oltre ciò, in un quadro di occupazione stagnante (per usare un eufemismo), e con una tendenza al rialzo dei prezzi dell’energia (frutto di movimenti di mercato o di stupidità indigena), che notoriamente agisce come una imposta regressiva oltre a determinare una contrazione della spesa discrezionale (vista la sua bassa elasticità al prezzo), le prospettive restano cupe.

 

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