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Israele e la pace come mezzo

In questi ultimi giorni si è riacceso il conflitto israeliano/palestinese. La causa è la decisione, presa dal governo di Benyamin Netanyahu, di costruire 700 alloggi nelle aree della Cisgiordania, che considera come appartenenti a Gerusalemme.

Israele e la pace come mezzo

La decisione viene dopo quella di costruire 1600 nuovi alloggi a Gerusalemme est, in zona araba e che ha provocato violente proteste dei palestinesi di Gerusalemme. Questa decisione ha provocato reazioni negative anche negli Stati Uniti; il presidente Obama ha dichiarato che: l’annuncio di 1600 nuove costruzioni previste a Gerusalemme Est "non è stato di aiuto al processo di pace".

Continua dunque la politica di colonizzazione dei territori occupati di Gaza e Cisgiordania da parte di Israele; una politica che non si può certo addebitare tutta a Netanyahu ma che è la conseguenza diretta della politica di "rafforzamento dei confini" attraverso l’occupazione dei territori confinanti. Politica che, al di la delle belle parole, indica la volontà di Israele di arrivare alla pace solo dopo la colonizzazione dei territori, e conseguente estromissione dei palestinesi da ogni gestione, e di usare la stessa per questo scopo. La pace intesa come mezzo e non come fine; nel momento in cui i territori saranno colonizzati e gli israeliani si saranno insediati con le loro attività, parlare di pace diventerà superfluo.

Oggi si parla di pace nel senso di dare ai palestinesi un territorio loro senza l’influsso di Israele e non di pace nel senso di dare a Israele il "comando del territorio". Ma per Israele questo non conta, per esso, la pace significa unicamente la sua sicurezza.


Ma la vera novità consiste nel rifiuto dell’occidente, USA in testa, di accettare tale visione. L’obiettivo iniziale dell’occidente era quello di creare all’interno dei paesi arabi, oltre all’instabilità del territorio, tensioni tali da dividerli, affinché potesse controllare quei territori ricchi di materie prime, in modo particolare il petrolio, e di penetrare in essi, con la scusa di portare le libertà tipiche dell’occidente, modificando l’assetto politico e sociale dei paesi dell’area islamica. Questa politica, con l’ostinazione di Israele, rischia di fallire perché potrebbe creare i presupposti per una ritrovata unità delle nazioni islamiche in difesa dei loro interessi comuni socioeconomici e politici. Interessi che, a causa delle diverse opinioni sulla gestione sociale, quasi sempre non coincidono con l’occidente. Ciò comprometterebbe l’obiettivo finale della politica occidentale in medio oriente, cioè l’occidentalizzazione dell’area, presupposto essenziale per un controllo totale.

Inoltre, la formazione di un blocco islamico che si contrapponga all’occidente, oltre a creare evidenti problemi di approvvigionamento di energia, si rifletterebbe anche sulle politiche migratorie adottate finora e tendenti a integrare in esso il migrante. Questo comporterebbe la formazioni di forti tensioni interne al mondo islamico che in un qualche modo lo stesso dovrà risolvere.

In questo contesto, la politica israeliana non conviene né agli arabi né all’occidente.
L’unica soluzione, se si vuole mantenere quella parvenza di pace esistente, è la creazione di uno stato palestinese indipendente.

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