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Israele-Palestina, la vita in ostaggio

L’arma più efficace delle armi - gli ostaggi israeliani trattenuti nella Striscia di Gaza - sembra non bastare più al confronto che ridiventa scontro.

Netanyahu ha fatto rientrare da Doha gli agenti del Mossad che sotto la supervisione qatar-egizio-statunitense trattavano con Hamas i termini di nuove reciproche restituzioni. La formazione islamica alza la posta sulle donne-soldato e riserviste e Tel Aviv stacca la spina della parola e riattacca quella delle bombe. Riprendono l’abbattimento di edifici, l’ammazzamento di civili (trecento e forse più in un giorno), sebbene Israel Defence Forces ora comunichi un meticoloso e razionale programma di distruzione di case palestinesi, provando a non far vittime. Mostra le piantine dei palazzi da radere al suolo e l’avviso di evacuazione rivolto agli abitanti, affinché non restino sotto le macerie. Un piano che sostituisce il precedente di martellamento a tappeto, responsabile di oltre 15.000 morti, ma che non ne esclude ulteriori. Anche perché l’esecutivo Netanyahu procede a tentoni, volendo imporre il proprio volere al nemico da distruggere, il Movimento di Resistenza Islamico, mentre la realtà dice altro. Tsahal può continuare a vendicarsi, uccidere, occupare a tempo indeterminato, può compiere per mesi ciò che Hamas ha fatto nei kibbutz attigui al suo filo spinato nella giornata del 7 ottobre, strage su strage, sangue su sangue, senza risolvere nulla. E soprattutto mostrando chiaramente di non riuscire a riportare a casa i concittadini rapiti, né per ora annientare il labirinto dei tunnel nel quale sono custoditi i restanti 137 ostaggi, e neppure disintegrare militarmente e politicamente il partito verde che vive fra i palestinesi di Gaza e sempre più anche di Cisgiordania. Non tutti i palestinesi sostengono Hamas, è vero. Ma è anche vero che questa formazione non è estranea al comune sentire delle ragioni palestinesi, per quanto possa usarle a proprio vantaggio. 

L’unico effetto vantaggioso per gli angosciati familiari dei prigionieri israeliani e per uno straniato Israele è la trattativa in corso, con cui ridimensionando la certezza e il mito della propria supremazia si raccolgono i sorrisi e gli abbracci dei liberati che inconsapevolmente, a due o ottant’anni, si son ritrovati oppressi da logiche di guerra. Tragiche logiche fondanti per Israele e Hamas. La giustezza o l’infamia di quest’ultima guerra non è assoluta per entrambi i contendenti, che proprio dal tavolo su cui barattano vite possono cogliere elementi di riflessione per riorientare il reciproco domani. Senza futuro appaiono i venti di guerra permanente di chi dice: distruggiamo Hamas o distruggiamo Israele, i falchi dell’una e l’altra sponda ancorati a logiche inattuabili. Da parte palestinese sembrerebbe ostico sradicare il fondamentalismo che oggi più che nel partito di Haniyeh e Sinwar risiede nella galassia jihadista, nata e accresciuta a seguito di ciò che Tel Aviv, Washington e l’occidentalismo pro israeliano continuano a permettere: un sistema di occupazione-colonizzazione-segregazione-uccisione della gente di Palestina. Mentre il coraggio di chi vuol proporre un diverso Stato di Israele può consistere nell’abbandonare il fallimentare sionismo e ancor più il confessionalismo di ritorno sancito dalla recente scelta di decretare Israele nazione ebraica. Le menti aperte di questo popolo, gli intellettuali passati e attuali, sempre presenti nei dibattiti che riconducono alla piaga dell’antisemitismo, per difendere presente e futuro da questo genere di attacchi riattualizzati dal neofascismo mondiale assai più che da organizzazioni arabe, potrebbero suggerire ai politici israeliani di valutare diversi orizzonti. Lo Stato unico di Palestina dove israeliani e palestinesi hanno pari dignità, opportunità, rispetto, fede. Un Paese della vita contro quello della morte quotidiana.

Enrico Campofreda, 3 dicembre 2023 

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