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Islanda, prigioniera sovrana

In Islanda, proseguono gli squilibri causati dal collasso del sistema finanziario, nel 2008, e dalla successiva imposizione di controlli sui capitali. In un tripudio di unintended consequences, questa volta in trappola sono finiti i fondi pensione nazionali.

La premessa è che i controlli sui capitali sono stati introdotti per evitare che la divisa subisse contraccolpi devastanti dal deflusso di capitali esteri, in aggiunta alla forte svalutazione della corona indotta dalla crisi. Nelle banche islandesi fallite restano capitali di proprietà di non residenti per l’equivalente di circa la metà del Pil del paese: 7,2 miliardi di dollari su un default di 85 miliardi. Si impone quindi di decidere che fare di questi soldi: permettere ai creditori di prelevarli, sia pure per piccoli importi, appare problematico visto che il surplus islandese delle partite correnti non genera abbastanza valuta per far fronte non solo agli eventuali rimpatri di liquidità offshore ma anche al servizio del debito privato in scadenza nei prossimi anni.

Attendendo la quadra, che rischia di essere prima o poi un prestito in valuta forte del Fondo Monetario Internazionale, gli islandesi meditano che fare. Le proposte oscillano dalla imposizione di perdite ai creditori esteri sugli attivi delle banche fallite, alla creazione di meccanismi di razionamento con fissazione di priorità negli acquisti di valuta estera, all’imposizione di limiti sugli investimenti in valuta dei ben 27 fondi pensione islandesi, proposta che viene proprio dal FMI. Ovviamente i fondi pensione non ci stanno, e promettono battaglia.

Un dato su tutti, per dare la misura del problema: ogni anno, da qui al 2022, il sistema islandese dei fondi pensione dovrà investire risorse pari all’equivalente di 1,7 miliardi di dollari, il 10% del Pil del paese. Come ogni investitore che si rispetti, l’idea dei fondi è quella di diversificare in altre valute. Ma i controlli sui capitali, ed il suggerimento del FMI, rischiano di impedirlo, concorrendo alla formazione di una serie di bolle finanziarie (ad esempio quella immobiliare) che non promettono nulla di buono. Pensateci: se voi siete un fondo pensione e non potete andare a comprare all’estero che fate? Comprate asset domestici, di un paese di “ben” 300.000 anime. I quali finiscono col gonfiarsi e perdere ogni legame con i fondamentali sottostanti sin quando la bolla scoppia, mettendo le pensioni a rischio.

L’associazione dei fondi pensione islandesi ha proposto di poter investire fuori dal paese ogni anno una percentuale del surplus commerciale del paese, in modo da non accentuare gli squilibri esistenti. Il problema di questa strategia è che quel surplus sta svanendo, dopo che la corona si è rafforzata contro euro, da inizio anno, di circa l’8%, anche a seguito di azioni della banca centrale islandese sul cambio, che puntano a contrastare l’inflazione importata. Le riserve valutarie del paese restano quindi su livelli piuttosto bassi ed i margini di manovra molto stretti o quasi nulli, anche perché il paese resta escluso dai mercati internazionali dei capitali.

Cose che capitano quando il sistema finanziario di un paese cresce ad un multiplo del Pil, accumulando passività verso non residenti. Alla fine, il collasso costringe ad imporre controlli sui capitali che tuttavia sono il modo migliore per sviluppare bolle e distorsioni. Certo, resta la soluzione più semplice, sulla carta: quella di abbattere il valore dei claims dei fondi esteri nelle banche islandesi fallite. Il problema è che, in tempi “argentini” come quelli che stiamo vivendo, l’idea di dover affrontare in tribunali internazionali gli investitori esteri, e perdere, consiglia cautela alle autorità islandesi. Tra le soluzioni, o un prestito-ponte del FMI o l’abbandono della corona e l’ingresso in una valuta forte. Considerando che è piuttosto improbabile che l’Islanda adotti il dollaro statunitense come unità di conto, resterebbe l’ingresso nell’euro, per ora messo in pausa in attesa di tempi migliori.

Intanto sono già passati sei anni dal default, e la situazione è lungi dall’essere normalizzata. Eppure pareva tutto così semplice all’epoca. Soprattutto in Italia.

 

Foto: C. Michel/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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