Irlanda, crollo delle banche: alla fiera dell’Ovest
Sul suo blog, Antonio Martino riflette su eurocrisi di debito e valuta unica. Nulla di inedito, le abituali critiche alla costruzione europea. Su quello che è andato storto si è detto, dovrebbe essere piuttosto acquisito. C’è tuttavia un passaggio che ci risulta piuttosto incomprensibile.
Scrive Martino:
«le possibilità che i problemi dell’Irlanda possano esercitare un effetto di domino sull’intera UE sono assai modeste: il paese è troppo piccolo perché determini conseguenze catastrofiche per un’area monetaria che ha circa cento volte la sua popolazione»
Cosa c’entri la popolazione con il potenziale di destabilizzazione di un paese, ci sfugge. Esiste un potenziale sistemico, dato dalle interdipendenze tra sistemi creditizi. Pensatela a questo modo:
- Le banche britanniche sono piene di titoli irlandesi, che sono diventati tossici perché contengono crediti immobiliari che hanno un valore di recupero sempre più basso;
- Le banche francesi hanno in portafoglio titoli di banche britanniche, che hanno comprato titoli di banche irlandesi;
- Le banche tedesche hanno in portafoglio titoli di banche francesi, che hanno comprato titoli di banche britanniche, che sono piene di titoli di banche irlandesi;
E così via: voi vedete un nesso tra potenziale sistemico e consistenza della popolazione irlandese? Noi no.
Martino prosegue:
«Inoltre, se un paese europeo ha una situazione precaria nei suoi conti pubblici, non sarà il “salvataggio” delle banche irlandesi a risolverla. Infine, se s’interviene per l’Irlanda, perché non anche per la Grecia, il Portogallo, la Spagna o l’Italia? Se seguisse questa regola, l’UE finirebbe per accollarsi i debiti di tutti i paesi membri e questo comprometterebbe davvero la stabilità dell’euro, cosa che i guai irlandesi da soli non potrebbero mai fare»
E’ vero, infatti il Fondo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria assomiglia sempre di più ad un gruppo di alpinisti in cordata e rischia seriamente di finire male, per la circolarità perversa insita nella sua struttura. Ad ogni salvataggio successivo le quote di intervento di ogni paese “superstite” si accrescono, fino al punto di rottura. Guardiamo in faccia la realtà: lasciare fallire una banca è finora stato considerato praticamente impossibile, per le ramificazioni che ciò avrebbe sull’intero settore creditizio europeo, e quindi sull’economia dell’area. Per questo si cerca, con ogni modo, di evitare l’evento, ma ciò appare sempre più difficoltoso, ed i mercati lo hanno già fiutato.
Se nella prima fase della crisi abbiamo assistito ad interventi nazionali che hanno trasferito il peso del debito dalle banche al sovrano, in questa fase abbiamo la gestione “pseudo-consortile” della crisi, dove un paese leader (la Germania) tenta di imporre condizionalità utili per riplasmare le regole del gioco comune, ma senza tentare di creare una vera unione economica, cioè fiscale oltre che monetaria.
Martino pensa sia comunque colpa dell’euro:
«Se, infatti, l’Irlanda non avesse adottato la moneta comune, una svalutazione tempestiva, anche se modesta, avrebbe corretto lo squilibrio e la disoccupazione non sarebbe ai livelli attuali»
E’ vero, ma allora aggiungiamo che se l’Irlanda non fosse entrata nell’euro non avrebbe avuto quei tassi reali negativi che hanno stimolato il boom creditizio ed immobiliare. E’ tuttavia altresì vero che, se governo e vigilanza bancaria irlandesi avessero agito preventivamente per impedire operazioni spericolate di crescita del credito non saremmo arrivati a questo punto, e qui l’euro nulla c’entra. Insomma, alcune tesi di Martino appaiono frettolose e non particolarmente meditate, forse perché in questa crisi non esiste una radice unica ma una serie di concause. Il post si chiude con una riflessione sull’Italia, e la promessa di approfondimento successivo:
«a questo punto mi sento solo di assicurare il lettore che, malgrado gli enormi errori dei nostri politici e banchieri, i nostri risparmi non corrono pericoli gravi … proprio perché esistono e sono abbondanti. La frugalità delle formiche private (le nostre famiglie e le imprese) finora è riuscita a neutralizzare i danni enormi derivanti dagli sperperi delle pubbliche cicale»
Anche questo sembra vero, ma non è troppo semplice? Come mai l’Italia ha avuto una crescita parallela, nei decenni, di debito pubblico e stock di ricchezza privata? Non sarà che c’è un legame tra le due grandezze? E che c’entra l’abbondanza dei risparmi privati italiani in funzione anti-contagio? Ve lo diciamo noi: nulla. O meglio, c’entra se ipotizziamo che ad un certo punto, in assenza di crescita e con ampi e crescenti buchi di gettito fiscale, il governo italiano (qualsiasi governo) sarà costretto ad imporre una patrimoniale straordinaria per tenere i conti in equilibrio pro-tempore. Per il resto, non c’è nulla nello stock di risparmio privato italiano che possa confermare la tesi di Martino: i residenti italiani acquistano circa metà del debito pubblico emesso dal tesoro, non siamo autosufficienti nel finanziamento del nostro debito.
Come sempre, la cura dei dettagli è alla base di ogni analisi degna di questo nome.
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