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Iran, tre nodi per mesi caldissimi

Sull’onorevole salma di Mohsen Fakhrizadeh, fino al giorno dell’attentato letale guida suprema del nucleare iraniano, pendono almeno tre nodi irrisolti del presente geopolitico della Repubblica Islamica. Quello internazionale, che ha già riguardato offese feroci subìte con l’assassinio del generale Suleimani.

Al suo omicidio eccellente il regime degli ayatollah decise di non rispondere, le scaramucce su ambasciata e obiettivi minimi statunitensi in terra irachena risultarono appunto schermaglie. Il secondo nodo si lega proprio alla linea da tenere di fronte ai nemici e al mondo. Moderati e pragmatici ribadiscono la posizione d’una dignitosa lontananza dall’escalation provocatoria degli assassini, riassunta in queste ore dalla dichiarazione del presidente Rohani: “I nostri nemici dovrebbero sapere che il grande popolo iraniano è coraggioso e onorevole e non risponde a simili atti criminali”. Di contro i falchi meditano vendette non solo da proclamare, ma le uscite dell’ex sindaco di Teheran, ora speaker del Parlamento, Qalibaf che reclama una “reazione forte” dello Stato. E ancor più la tempestosa “Piomberemo come tuoni sulla testa dei responsabili dell’omicidio di questo martire” annunciata da Hossein Dehghan, consigliere della Guida Suprema, sembrano più utili a propagandare le loro candidature sulle elezioni presidenziali di primavera, che minacce organizzate da poter eseguire. Contro chi? questa è l’unica certezza: Israele, che da più parti è indicato come il regista e l’esecutore, tramite il suo super braccio armato del Mossad, dell’assassinio dell’illustre professore.

Qui subentra il terzo nodo, di cui discutono gli analisti, ma anche la cittadinanza iraniana che, laica o clericale, riformista o ultraconservatrice, non ama ingerenze esterne, e soffrendo della scarsa sicurezza si chiede com’è stata possibile quest’ulteriore operazione paramilitare sul suolo patrio. Una prima versione dell’assalto indicava un commando d’una dozzina di elementi dispiegati fra far detonare l’autobomba, sparare sull’auto condotta dallo stesso Fakhrizadeh e sulle due di scorta, alcuni cecchini erano in auto, altri su moto. Poi è stata diffusa anche una tesi funambolica: i colpi sarebbero partiti da un mitra robotico piazzato sull’auto civetta e azionato da chissà dove, un apparecchio che ha realizzato da terra la funzione dei droni nell’aria. Ipotesi avvincente, ma tutt’altro che provata e diffusa da un’agenzia prossima ai Pasdaran. La struttura nata dalla Rivoluzione Islamica e cresciuta con la cosiddetta “gioventù del fronte” che ha salvato la patria dalle mire espansionistiche di Saddam Hussein. La milizia dei martiri sacrificatisi per la nazione islamica di Khomeini che nei decenni ha costituito l’asse portante del potere degli ayatollah sul versante della forza, venendone ripagata con lo strapotere di molte bonyad, fondazioni poste sotto il suo controllo, insomma una lobby divenuta partito politico. Eppure quest’apparato militarmente potente nella regione, col sostegno dato a nazioni e raggruppamenti alleati in Libano, Siria, Yemen, influente sul versante socio-economico interno, non riesce a offrire garanzie di copertura del proprio territorio.

La forza militare iraniana è indubbiamente cresciuta grazie alla tecnologia balistica di razzi e droni, però il gap tecnico degli apparati d’Intelligence riguardo a cyber e software, alla preparazione degli agenti sotto molteplici punti di vista, alle reti d’infiltrazione che possono vantare i Servizi statunitense e israeliano, resta ancora ampio e soprattutto favorevole a quest’ultimi. Che a un’esperienza di lunga data aggiungono risorse considerevoli, ad esempio quando occorre finanziare operazioni in territorio nemico. Anni fa un libro, scritto da cronisti che avevano prossimità con agenti del Mossad, rivelava come quest’agenzia per le proprie azioni armate non si fidava di ‘esterni’, però ne utilizzava pagando e finanziando delatori, acquisiva case sicure dove vivere per settimane o mesi mentre venivano preparati i colpi da portare. Proprio in Iran ai tempi della dinastia Pahlavi l’Intelligence israeliana godeva di coperture con la Savak, successivamente i referenti interni al Mossad possono essere diventati i Mujaheddin del popolo, un gruppo che condusse azioni terroristiche contro gli ayatollah. In epoca più recente i residuati di quest’organizzazione, sempre più distante dall’iniziale programma politico laico, sono diventati un raggruppamento finanziato dalla Cia nei suoi uffici sparsi all’estero, iniziando dal presidio parigino della propria ispiratrice: Maryam Rajavi. Proprio gli Stati Uniti, protettori d’una loro storica base in Iraq (camp Ashraf), hanno direzionato alcune migliaia di membri nell’Albania americanizzata. Coinvolgendo l’Unhcr, i miliziani sono finiti in una struttura vicina a Durazzo, Manëz. Mujaheddin o meno, certo chi aiuta i colpi d’Israele sa muoversi in terra iraniana e svergogna la “sicurezza” di Teheran. E fra i tre nodi presenti nell’irrisolto geopolitico e strategico iraniano, quest’ultimo risulta il più inquietante.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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