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Inflazione, allarme eccessivo?

Cresce il tasso di inflazione. Lo rende noto l’Istat, rilevando che, nel mese di marzo, il tasso tendenziale, cioè la variazione rispetto allo stesso mese dell’anno passato, si è attestato al 2,5%, rispetto al 2,4% di febbraio. Rispetto al mese precedente l’aumento dei prezzi è stato pari allo 0,4%. Il tasso tendenziale di marzo è il più elevato dal novembre 2008, quando il tasso di inflazione fu pari al 2,7%. L’intensificazione del processo inflazionistico non giunge certo inatteso. Del resto era inevitabile che il tasso di inflazione crescesse in seguito all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e di quelli alimentari (la benzina è aumentata rispetto all’anno passato del 12,7% e il gasolio del 18,5%).

E non è certo positivo che il tasso di inflazione aumenti. Gli effetti negativi sul potere d’acquisto delle famiglie sono evidenti, soprattutto perché, come già rilevato, l’aumento del tasso di inflazione è determinato soprattutto dalla crescita dei prezzi di beni di largo consumo. Premesso questo e rilevato che coloro i quali, le associazioni dei consumatori innanzitutto, hanno espresso preoccupazione per l’accelerazione dell’inflazione hanno, sostanzialmente, ragione, vorrei però sottolineare che l’allarme inflazione è in parte esagerato. Occorre considerare che il tasso di inflazione, sebbene accresciuto, rimane a livelli non elevati. Negli anni passati il tasso di inflazione ha raggiunto valori molto più alti e un tasso di inflazione attorno al 2% non può destare un “allarme rosso”.

A parte questo non vorrei che un eccessivo allarme per la crescita dell’inflazione possa essere utilizzato strumentalmente da quanti non intendono attuare una politica economica espansiva, necessaria per favorire una ripresa economica consistente, che possa contribuire a ridurre la disoccupazione. Costoro possono utilizzare proprio il “pericolo inflazione” come ulteriore motivo tendente a giustificare se non l’adozione di una politica economica più restrittiva quanto meno l’impossibilità di promuovere interventi di politica economica di chiaro segno espansivo. E io mi preoccuperei di più, almeno per il momento, delle decisioni che stanno prendendo i vari organi dell’Unione europea in base alle quali sarà necessario ridurre, considerevolmente, il debito pubblico dei paesi che presentano un rapporto elevato tra debito pubblico e Pil, e tra questi come è noto va annoverata l’Italia.

E per ottenere la riduzione del debito pubblico sarà indispensabile procedere all’attuazione di interventi di politica economica tendenti ad incidere fortemente sui conti pubblici, o tramite aumenti delle entrate o più probabilmente tramite consistenti tagli alle spese pubbliche. Le autorità governative italiane hanno rilevato che le decisioni, in fase di approvazione da parte dell’Unione europea, non danneggeranno eccessivamente l’Italia perché, oltre al debito pubblico si considereranno altre variabili quali l’indebitamento privato che, nel nostro paese, è poco elevato rispetto ad altri paesi membri dell’Unione che presentano valori del debito pubblico più bassi. Ma queste altre variabili mitigheranno in misura molto limitata le politiche rivolte a ridurre il debito pubblico, che rimarrà una delle variabili principali da tenere sotto controllo.

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