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Industria della moda: riflettori puntati sullo sfruttamento

La Clean Clothes Campaign lancia il nuovo report “Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda”.

 La ricerca analizza le informazioni raccolte da una parte attraverso questionari inviati a 108 marchi e rivenditori di 14 Paesi, e dall’altra attraverso interviste e analisi delle buste paga di 490 lavoratori e lavoratrici di 19 diversi stabilimenti in Cina, India, Indonesia, Ucraina e Croazia. Tutti i dati sono pubblicati sulla nuova piattaforma FashionChecker.org. Tra i marchi italiani contattati troviamo Benetton, Calzedonia, Falc, Geox, Gucci, OVS, Salewa.

I risultati dell’inchiesta rivelano innanzitutto il netto contrasto tra le affermazioni e le grandi promesse dei marchi della moda e la realtà affrontata dai lavoratori nei Paesi di produzione. La ricerca sui marchi mostra come nessun brand paghi un salario dignitoso ai propri lavoratori nelle catene di fornitura; la ricerca sul campo fa luce ancora una volta sulle pessime condizioni di lavoro che si nascondono dietro i numeri.

I salari di povertà continuano ad essere un problema sistemico nell’industria dell’abbigliamento, spesso nascosto in profondità all’interno di catene di fornitura complesse e segrete. Una situazione ulteriormente peggiorata durante la pandemia di Covid-19, quando marchi come Arcadia, Bestseller, C&A, Primark e Walmart (Asda) hanno deciso di annullare ordini e imporre sconti ai fornitori, lasciando così i lavoratori senza gran parte dei salari. A questo si collega una mancanza quasi totale di trasparenza in tutto il settore. Di fatto, sebbene i marchi facciano grandi promesse di sostenibilità e produzione etica, dietro le quinte esercitano un immenso potere di scelta tra economie a basso salario.

Come se non bastasse, la ricerca sul campo rivela la lotta che i lavoratori devono affrontare per guadagnare questi salari da fame. Nonostante gli straordinari eccessivi di oltre 100 ore al mese, solo due lavoratori intervistati guadagnavano un importo pari al salario vivibile, ma facendo due lavori ciascuno.

“Il mio lavoro è estenuante. Ogni giorno devo fare 18 ore. Molte lavoratrici non riescono a raggiungere l’obiettivo di produzione dalla fabbrica, così vengono licenziate. Devo lavorare sodo per raggiungere l’obiettivo e mantenere il mio lavoro” ci ha raccontato una lavoratrice in Cina.

Le buste paga spesso hanno formati molto complessi, rendendo difficile comprendere la ripartizione o contestare le inesattezze. In India e Indonesia tali informazioni sono così inaffidabili che molti lavoratori non sanno nemmeno in che modo ciò che ricevono si collega a ciò che è sulla loro busta paga.

In un settore alimentato prevalentemente dal lavoro femminile, la ricerca evidenzia poi una discriminazione di genere nei salari. Ad esempio, in India le donne guadagnano in media solo l’88% di quello che guadagnano gli uomini. Nella nostra ricerca sui marchi, nessuna azienda intervistata ha fornito prove o informazioni pubbliche sui divari retributivi di genere complessivi nella propria catena di fornitura.

Attualmente, ciò che accade in fabbrica rimane in fabbrica. Questo deve cambiare, perché ciò che accade in fabbrica ha pesanti ripercussioni sulla vita delle persone. I salari da fame pagati ai lavoratori dell’abbigliamento sono inaccettabili” ha dichiarato Priscilla Robledo della Campagna Abiti Puliti.

È ora che marchi e governi intraprendano azioni urgenti per soddisfare le richieste della Clean Clothes Campaign di maggior trasparenza e utilizzo di benchmark salariali per stabilire paghe dignitose in tutto il settore.

NOTE

  • il rapporto “Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda” è parte del progetto Fashion Checker della Clean Clothes Campaign e analizza i dati pubblicati sulla piattaforma www.FashionChecker.org
  • Fashion Checker mette in luce la discrepanza tra ciò che i marchi dicono di fare e la realtà che vivono i lavoratori nelle loro catene di fornitura.
  • Fashion Checker chiede che i marchi garantiscano il pagamento di un salario dignitoso ai lavoratori nelle loro catene di fornitura e sostiene che la trasparenza sia un mezzo cruciale affinché i marchi committenti rendano conto del loro operato e i lavoratori ricevano un salario dignitoso, cioè un diritto umano.
  • Fashion Checker è stato realizzato nell’ambito di un progetto triennale co-finanziato dalla Commissione Europea (DG DEVCO). Coinvolge 17 partner CCC provenienti da tutta Europa (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Austria, Croazia, Finlandia, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Svezia) nonché partner da Indonesia, Cina e India.

CHI SIAMO

La Campagna Abiti Puliti lavora su diversi livelli: dall’attività di sensibilizzazione e coinvolgimento dei cittadini, alla pressione verso imprese e governi affinché assicurino il rispetto dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda.

Gli strumenti utilizzati sono la realizzazione di campagne su tematiche specifiche e il lancio di azioni urgenti che possano favorire la consapevolezza e mobilitare le persone sia individualmente che collettivamente a sostegno delle richieste di assistenza e solidarietà dei partner internazionali per la risoluzione di casi di violazione nei Paesi di produzione.

La Campagna Abiti Puliti è una delle 14 coalizioni nazionali della Clean Clothes Campaign in Europa. Oggi la Clean Clothes Campaign è un network globale composto da 234 organizzazioni che collaborano attraverso 4 coalizioni regionali in Europa e Asia. Lavora con organizzazioni gemelle in Nord e Centro America e in Australia.

La coalizione italiana è coordinata da Fair e composta da: Altraqualità, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti Onlus, Movimento Consumatori, OEW, Hoferlab.

(*) ripreso da http://www.abitipuliti.org

Questo articolo è stato pubblicato qui

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