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Indonesia, torturato e condannato per aver sventolato una bandiera. Un fax per salvarlo

Cosa provereste se, per aver sventolato una bandiera indipendentista durante una festa nazionale e di fronte al presidente della Repubblica, vi arrestassero, vi torturassero a sangue, vi accusassero di “ribellione” e vi condannassero in primo grado all’ergastolo e in appello a 15 anni di carcere?

 

Il post di oggi racconta la storia di Johan Teterissa, insegnante di scuola elementare delle isole Molucche, un arcipelago dell’Indonesia.

Il 29 giugno 2007, in occasione della Festa nazionale della famiglia, il governo organizza una cerimonia nel capoluogo delle Molucche, Ambon. Questa città è un luogo strategico per il governo centrale: il cuore dell’irredentismo indipendentista ma, soprattutto, il centro di uno scontro religioso tra cristiani e musulmani che tra il 1999 e il 2002 ha fatto migliaia di vittime e che non sembra del tutto ricomposto.

Ma torniamo al nostro Johan. All’alba del 29 giugno di cinque anni fa, si organizza con altri 21 attivisti, insegnanti e contadini. Il gruppo supera i cordoni di sicurezza,inscena davanti al presidente una danza tradizionale di guerra e, al termine, spiega al vento la “Benang Raja”, la bandiera arcobaleno blu, bianca, verde e rossa. 

Immediatamente arrestati e presi a calci e pugni non appena fuori dalla vista del presidente, i 22 attivisti vengono portati alla stazione di polizia di Ambon e lì torturati per 11 giorni: li fanno strisciare con la pancia sull’asfalto rovente, gli infilano palle da biliardo in bocca, li frustano coi cavi elettrici, esplodono colpi di fucile vicino alle loro orecchie e li colpiscono, sempre sulle orecchie, col calcio dei fucili fino a farli sanguinare.

Questo è il racconto della madre di uno dei 22 attivisti:

“Sono andata alla stazione di polizia di Ambon, avevo appena saputo che mio figlio era stato arrestato. I poliziotti sono stati scortesi e mi hanno rivolto espressioni volgari. Ho chiesto di vedere mio figlio per 14 giorni. Alla fine mi hanno dato il permesso. Era irriconoscibile. Mi ha detto che la polizia l’aveva torturato, colpendolo coi cavi elettrici, coi bastoni e coi fucili. L’avevano gettato in mare con le ferite aperte e poi gli avevano dato dei cubetti di ghiaccio per fermare il sangue”.

Sulle denunce di tortura non viene aperta alcuna indagine. Procede spedita, invece, quella per il reato di “ribellione”. Il 4 aprile 2008 Teterissa viene condannato all’ergastolo, pena ridotta tre mesi dopo a 15 anni.

Nel marzo 2009, viene trasferito in una prigione sull’isola di Giava, a migliaia di chilometri di distanza da Ambon. Per i suoi familiari, andare a trovarlo è praticamente impossibile.

Il caso di Johan Teterissa non è isolato. È uno degli almeno 90 prigionieri di coscienza adottati da Amnesty International, condannati per aver esercitato il diritto umano alla libertà d’espressione e di manifestazione pacifica. Molti di loro sono in carcere per essere stati in possesso di bandiere proibite o averle sventolate nel corso di iniziative pubbliche.

Il governo indonesiano ha un problema con le bandiere: l’articolo 6 del regolamento 77/2007 proibisce l’esposizione della Stella del mattino di Papua, della Mezzaluna di Aceh e della stessa Arcobaleno delle Molucche del Sud.

Amnesty International ha lanciato una “fax jam” per chiedere al governo dell’Indonesia di rilasciare Johan Teterissa e tutti gli altri prigionieri di coscienza in carcere nel paese. C’è tempo oggi e domani!


Mandate anche voi un fax dal sito di Amnesty International Italia.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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